Alle origini della narrativa d’infanzia, tra Francia e Regno di Napoli.

C’era una volta, in un paese lontanouna favola raccontata a metà, che nasconde aspetti e messaggi oggi difficilmente presentabili ai più piccoli. La reputazione dei titani della narrativa d’infanzia, come Charles Perrault, Jacob e Wilhelm Grimm, risulta difficile da scalfire. Se si aggiungono le pellicole del vecchio Walter Disney, ci si trova di fronte a una corazzata narrativa, che ha plasmato milioni di bambini: impossibile pensare, anche lontanamente, che esista un’origine diversa delle loro storie. Qui entra in campo L’altra metà delle fiabe: il suo obiettivo è proprio quello di scardinare questo dogma.

Per ritrovare le radici delle favole perraultiane, bisogna spostarsi geograficamente nel Regno di Napoli, cronologicamente a cavallo tra Cinquecento e Seicento, e cercare informazioni circa la vita e le opere di Giambattista Basile: è stato l’autore di un’opera conosciuta come Pentamerone, divenuta celebre con il titolo Lo cunto de li cunti. La struttura segue quella del Decamerone del Boccaccio:

  • Cornice: una principessa non riesce più a ridere, così accorrono a palazzo giullari e cantastorie da tutto il regno.
  • Struttura: cinque giornate (Penta: cinque Mèros: giornate), durante le quali dieci vecchie raccontano una storia ciascuna, per un totale di cinquanta racconti.
  • Lingua: come l’opera del fiorentino, non è scritta in latino, bensì in napoletano.

La facce de crapa; La schiavottella; Lo scarafone, lo sorece e lo grillo; Sole, Luna e Talia; Cagliuso, La gatta Cenerentola: titoli che non dicono nulla alle orecchie di molti. Forse suoneranno più familiari come La bella addormentata, Il gatto con gli stivali e Cenerentola: questi i racconti trattati nel volume edito da ABEditore. Già sottolineato da Antonella Castello, curatrice del volume, L’altra metà delle fiabe “non si propone come confronto critico” tra le opere di Basile e quelle di Perrault, bensì come opportunità di conoscenza di ciò che è stata l’origine e la tradizione” delle fiabe stesse.

Leggendo la “prima metà delle fiabe”, quella tratta da I racconti di Mamma Oca di Perrault, salta all’occhio un grande divario tra le favole più celebri e le omonime trasposizioni cinematografiche. Nell’animazione de La bella addormentata (1959) non si parla affatto della madre del principe, che aveva “gli istinti dell’orco e che, quando vedeva passare dei ragazzetti, facesse sopra di sé degli sforzi inauditi per trattenersi dalla voglia di avventarsi su di essi e di mangiarseli”. Oppure Il gatto con gli stivali, che aiuta il suo povero padrone, attraverso l’astuzia, a diventare ricco: difficile trovare assonanze con lo spagnoleggiante felino in cerca dell’oca dalle uova d’oro targato DreamWorks.

Se già i cartoni animati risultano edulcorati rispetto alle fiabe originali francesi, la versione barocco-napoletana apparirà impresentabile a un bambino. Manipolazione epocale da parte dell’autore transalpino? Assolutamente no, semplicemente target differenti: le tipologie di pubblico a cui si riferiscono sono anagraficamente agli antipodi. Come ricorda la curatrice del libro, “Lo cunto de li cunti si proponeva di intrattenere, tramite la narrazione di vicende più o meno scabrose e divertenti, le corti e tutto il loro consesso di aristocratici durante i banchetti”. Emerge prepotentemente dal linguaggio utilizzato, eccone un assaggio da Sole, Luna e Talia:

Alla fine giunse nella camera dove giaceva Talia, avvolta dall’incantesimo: il Re, appena la vide la chiamò, credendo che stesse dormendo. Visto che la fanciulla non si svegliava, per quanto facesse e gridasse, accecato e infiammato dalle sue bellezze la portò in braccio fino a un letto e lì colse i frutti dell’amore; poi la lasciò coricata e se ne tornò nel suo regno, dove per molto tempo non si ricordò di quello che era successo.

Un’altra grande differenza riguarda il tono dei racconti: se da un lato abbiamo un linguaggio semplice e aggraziato (Perrault), dall’altro uno più schietto e senza troppe smancerie, che va dritto al sodo (Basile). Lo si vede soprattutto nella morale finale, presente in tutti i racconti dei due favolieri. Confrontiamone qualcuna:

  • Il gatto con gli stivali (Perrault): Godersi in pace una ricca eredità, passata di padre in figlio, è sempre una bella cosa: ma per i giovani, l’industria, l’abilità e la svegliatezza d’ingegno valgono più d’ogni altra fortuna ereditata. Parole stupende, frasi articolate e auliche, ricche di insegnamenti e di buoni propositi, certamente.
  • Cagliuso (Basile): Dio ti guardi dal ricco impoverito e dal pezzente quando è arricchito. Breve, conciso e cinico, riporta il lettore con i piedi per terra, alla vita di tutti i giorni.

Oggi, probabilmente entrambe le opere non verrebbero lette, a nessun tipo di pubblico. Non bisogna fare l’errore di leggere il Passato con gli occhi del Presente, ma prendere coscienza di una tradizione letteraria poco conosciuta: questo è uno dei meriti de L’altra metà delle fiabe.

Una replica a “Alle origini della narrativa d’infanzia, tra Francia e Regno di Napoli.”

  1. Avatar Non solo Dracula: uno sguardo sul vampirismo letterario. – Romanzoapranzo

    […] sguardo diverso su alcuni generi letterari e aspetti narrativi ormai consumati: è stato così per le fiabe di Perrault e dei fratelli Grimm, già trattate in una passata recensione, lo riconferma con Draculea. Figli delle […]

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