“Gli animali ci possono insegnare molto!”: una frase trita e ritrita, che smarca l’Uomo dalle sue responsabilità, caricandole sulle spalle di tutti gli altri esseri viventi. Basterebbe cambiare il verbo per una rivoluzione: Imparare pone chi osserva in una posizione attiva, non subendo l’insegnamento ma diventandone parte fondamentale. Questo ha fatto Maurice Maeterlinck ne La vita delle api, conducendo il lettore in un viaggio all’interno dell’alveare.

Scritto nel 1901, sicuramente alcune osservazioni potrebbero risultare superate; questo però non invalida l’intero romanzo, corredato da note e rimandi puntuali che sorreggono le argomentazioni dell’autore. Tuttavia, ad affascinare il poeta belga è proprio l’indimostrabile che si nasconde tra le cellette di cera; quello che, da convinto esponente della cultura simbolista, chiama spirito dell’alveare. Questo segue tutte le fasi della vita dell’ape, raccontate nel libro: creazione dello sciame, fondazione della città, nascita delle regine, volo nuziale e uccisione dei maschi.

Già dalle prime pagine, si ha un assaggio del lirismo con cui affronta l’oggetto di osservazione. Così parla della cattedrale di cera:
Dall’alto di una cupola più colossale di quella di San Pietro a Roma, scendono fino a terra gigantesche mura di cera, costruzioni geometriche, sospese nelle tenebre e nel vuoto, che, per la precisione, l’audacia e l’enormità, non sapremmo paragonare, ragguagliando le proporzioni, a nessuna costruzione umana. Ecco le vistose macchie rosse, gialle, viola e nere del polline, lievito d’amore di tutti i fiori della primavera. […] Tutt’intorno, in lunghi e fastosi drappi d’oro dalle pieghe rigide e immobili, il miele d’aprile, riposa già nei suoi ventimila serbatoi chiusi con un suggello che non sarà violato se non nei giorni di supremo bisogno. […] Infine nel sancta sanctorum di quei limbi, i tre, quattro, sei o dodici palazzi chiusi, proporzionalmente molto vasti, delle principesse adolescenti che attendono la loro ora, avvolte in una specie di sudario, immobili e pallide, nutrite, come sono, nelle tenebre.
Come all’interno di The Hive, installazione del Regno Unito per l’Expo 2015 di Milano, ideata dall’architetto Wolfgang Buttress, il lettore è accolto tra i favi. Sembra percepirne il profumo e la vitalità che li animano: sessantamila individui, perfettamente organizzati, ognuno con il proprio ruolo, fanno la grandezza dell’alveare.

Proprio nel momento di massimo splendore del palazzo, quando abbonda il miele e i sudditi prosperano, succede qualcosa che, agli occhi dell’Uomo, risulta inspiegabile: lasciano l’alveare alle larve che, in quel momento, dormono ancora. Una cieca fiducia nelle generazioni future, alle quali non si lascia un ambiente prosciugato delle sue ricchezze, bensì accogliente e pronto a sostenerle, garantendo loro un futuro. Un esempio di amore per il prossimo, una lezione di ecologiache si potrebbe allargare alla casa comune che è la Terra. Per troppi anni infatti, come recita l’enciclica Laudato si’ di Bergoglio, “siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla [la Terra, ndr]. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi”.

Un senso di responsabilità sembra muovere la coscienza (sembra strano parlarne ma, seguendo l’approccio simbolista di Maeterlinck, è più che plausibile) di questi insetti in ogni loro battito d’ali. Un’esistenza di gruppo, in cui l’individuo non è nulla e “l’intera sua vita è un sacrificio totale all’essere innumerevole e perpetuo di cui fa parte”; la rinuncia di una parte di libertà individuale per il bene della collettività. Socialismo formato animale? No, solo senso della misura per la sopravvivenza di tutti: nell’atmosfera mondiale che si respira, satura di individualismo, un decimo del loro comportamento potrebbe solo giovare.

Si potrebbe obiettare affermando che l’alveare si muova in funzione della regina, archetipo dell’egoismo: in realtà, più che di una monarchia assoluta sarebbe meglio parlare di una “repubblica regale”. Se è vero che il regicidio non è concepito e che tutte le operaie lavorano per proteggere la loro sovrana, è altrettanto vero che quest’ultima è soggetta a una forma di consenso elettorale: “l’attaccamento può anche mutarsi in furore e odio se la sovrana non compie tutti i suoi doveri verso la divinità astratta che chiameremo la società futura”. Di nuovo: non per interesse personale dello sciame presente, ma per preservare quello futuro. L’ennesima prova d’amore di questi animali: sembra che questo sentimento, che regola la vita, sia in loro innato. L’abnegazione con cui si prodiga la monarca nel deporre le uova (dopo il volo nuziale, uscirà dall’alveare solo per la sciamatura) va di pari passo con il sacrificio del maschio, “la cui sola ragione d’essere è un atto d’amore”. Così ne parla Maeterlinck:
Fra quelle migliaia [di pretendenti, ndr], uno solo sarà l’eletto, per un bacio unico d’un solo minuto che lo sposerà alla morte nel tempo stesso che alla felicità. Appena completata l’unione, il ventre del maschio si lacera […], le ali si stendono e, fulminato dalla folgore nuziale, il corpo svuotato gira su se stesso e cade nell’abisso.

Due specie, la sapiens e la millifera, molto distanti che però presentano alcuni punti di contatto, al punto che si può quasi parlare, come nei quadri metafisici di Pier Augusto Breccia, di un uomini-ape. Un esempio è lo spirito di adattamento, che porta entrambe a modificare le proprie abitazioni in base al luogo in cui decidono di vivere. O ancora lo stacanovismo con cui accumulano capitali: per una, fruttosio e saccarosio dorato; per l’altra obbligazioni e azioni. A cambiare è solo il fine: sopravvivenza di tutti contro avarizia. E poi ancora: organizzazione gerarchica, divisione del lavoro, una sorta di senso estetico e geometrico. Persino l’omicidio, o apicidio che dir si voglia, le lega.

La vita delle api merita di emergere dalla produzione di Maeterlinck, assieme alle altre due opere che vanno a formare il trittico sui cosiddetti insetti sociali: La vita delle termiti (1926) e La vita delle formiche (1930). Un romanzo che diventa crocevia tra trattato scientifico, raccolta poetica simbolista e osservazione diretta di una società, dalla quale, viste le somiglianze di partenza, si può solo che apprendere molto.