Per comprendere Il mio nome è Wok l’antilope bianca si potrebbe partire dai Prigioni incompiuti di Michelangelo Buonarroti. Un’esagerazione? Probabilmente, ma andiamo avanti. Una delle teorie dietro ai non-finiti michelangioleschi, forse la più romantica e sicuramente la meno oggettiva, è quella secondo la quale lo scultore aretino abbia intenzionalmente lasciato a metà le sculture, in modo che l’interlocutore possa immaginare il resto dell’opera e rifletterci sopra. Mi piace pensare che anche Francesco Carofiglio abbia voluto lasciare uno spazio di libertà e riflessione al lettore.

Ronald Wokaihwokomas Torres, o semplicemente Wok, è un adolescente americano con una famiglia ridotta all’osso: nessun parente; un padre sparito nel nulla; un nonno, Bill, ricoverato in una casa di riposo, da anni piombato in un silenzio assordante. Anche l’unico punto fermo, sua madre Alice, se n’è andata: è morta, e ora la casa è vuota, “con poche cose, silenziosa. E io [Wok, ndr] mi ci sono abituato a vivere da solo”. L’idea di una casa-famiglia non gli piace e una sera decide di partire. Destinazione: ignota.

Realtà e sogno divisi dalla linea d’asfalto, un viaggio in solitaria nel quale Wok macina chilometri. Il paesaggio lunare del deserto texano si apre davanti ai suoi occhi, il senso di solitudine affolla la terra arida che lo circonda: “davanti a me, gli abbaglianti proiettano un cono lungo e fissano il confine del mondo visibile. […] Se dal satellite adesso scattano una foto, puoi vedere una grande macchia nera, con due puntini luminosi. E poco distante un altro puntino che si muove. Sono io, che sto arrivando”. Un’oasi ogni tanto abbaglia con i suoi neon sfarfallanti, l’odore della benzina richiama il viaggiatore: motel e stazioni di servizio gli unici non-luoghi in cui scambiare conversazioni intangibili, senza sapore. Sembra di essere tra le note di Hotel California degli Eagles.

Sul suo cammino incontra Zoe, vent’anni, zaino in spalla, macchina fotografica al collo: il ritratto della perfetta globetrotter in cerca di storie da raccontare. Subito tra i due scatta una sintonia, fondata da un condiviso bisogno di evasione. Tra i dialoghi serrati e schietti, si fa strada un’affinità (come il personaggio di Zoe, forse anche il loro legame avrebbe meritato di essere coltivato maggiormente e lentamente dall’autore) che raggiungerà l’apice in un’unica notte di passione. In tutto il romanzo, le loro esistenze si separeranno e si ritroveranno, per condividere gioia, rabbia e paura, in un viaggio rocambolesco sempre più metafora di cambiamento. Come la stessa ragazza dichiara infatti, “a volte devi aspettare un disastro per accorgerti di alcune cose”.

Un viaggio in cui Wok, cercando un modo per andare avanti dopo la scomparsa della madre, si volta indietro, verso le sue origini: Bill, suo nonno, è l’unico punto di riferimento che gli rimane, decide così di andare a salvarlo dall’ospizio per riportarlo in Arizona, nella riserva natia. È infatti un guerriero Navajo: il suo vero nome è Ahiga, colui che va in guerra, fiero e maestoso nonostante abbia passato i settant’anni. Il suo mutismo nasconde una battaglia interiore che lo affligge da anni, che riguarda suo figlio. Wok scoprirà la verità su suo padre tramite una lettera, lasciata da Alice, e custodita fin a quel momento da Bill: ora può andare avanti e smettere di fuggire.

Il mio nome è Wok l’antilope bianca è apparentemente un romanzo timido, incapace di esprimere al massimo le sue potenzialità: i non detti e i silenzi lo caratterizzano, dando l’impressione di incompiutezza. Questo perché, come scritto nelle ultime pagine, “non siamo pazienti, maledizione, non siamo abbastanza pazienti, abbiamo una stramaledetta fretta. […] Troppa fretta di risolvere il problema”, di arrivare al dunque. Serve tempo per comprenderlo; per la lettera di Alice, per il dolore di Wok, per i rimpianti di Bill. Questo tempo Francesco Carofiglio lo crea: e qui torniamo alla teoria dei non-finiti. L’autore lascia degli spazi di riflessione, materiali e tangibili, ovvero le illustrazioni (opere dello stesso Carofiglio): toni caldi, ritratti che riempiono la pagina, interminati spazi aperti in cui il lettore può, finalmente, perdersi nei suoi pensieri.