La capacità dei bambini di leggere il mondo con schiettezza molto spesso disarma gli adulti: disinnesca le bugie, frantuma ogni regola morale, fa vacillare anche le più solide convinzioni. Applicata a grandi questioni come la scienza, la religione o la politica (queste ultime due hanno un coefficiente di fede elevato e molto simile), fa precipitare chi chiede e chi domanda nel magico e labirintico mondo dei perché: puntualmente, ad avere la peggio sono proprio i “grandi”. Molti sono gli interrogativi di Elisabetta, protagonista de La bambina che mangiava i comunisti: al banco degli imputati è chiamato a rispondere nientemeno che l’ideologia figlia del pensiero di Marx.

Da tutta la vita, ovvero da nove anni, Elisabetta vive immersa nella politica. La mamma infatti è una comunista convinta e praticante: milita nel PCI fin dalla Resistenza; è arrivata a Roma per combattere sul campo le ingiustizie e per far sentire la voce degli ultimi. In una capitale neorealista, dove si alternano sequenze pasoliniane, collabora con l’UDI, l’Unione Donne Italiane, per un progetto di politicizzazione ed emancipazione delle donne più povere del quartiere Campo Parioli. Le sezioni del partito diventano quindi casa per Elisabetta; veri e propri giganti della politica italiana spuntano dalle pagine del romanzo, incrociando la vita della bambina: Don Gaggero, Nilde Iotti, Giglia Tedesco, Celeste Negarville, Emanuele Macaluso. Proteste e interminabili riunioni avvolte dal fumo delle sigarette la sua quotidianità: sta crescendo una piccola compagna dai capelli rossi, “una bella bandiera migliore di uno stemma araldico”.

Partito dei preti, baciapile, guerra in Corea: un vocabolario inusuale per una bambina della sua età, insegnato da una madre che nell’ideale comunista ripone la massima fiducia. Ideale o ideologia? In tutto il romanzo si alternano le chiavi di lettura. Da un lato cerca di crescere la figlia con un modello diverso dal solito, distante dal cattolicesimo e da schemi che oggi si definirebbero patriarcali: emancipazione, libero pensiero e solidarietà sono i valori che vuole trasmettere. Ideali progressisti (sono davvero prerogativa esclusiva della sinistra?) che deviano verso il fondamentalismo antiamericano quando cerca di instillare in Elisabetta l’anticapitalismo. Si può leggere Il Pioniere ma non Topolino; meglio i maritozzi dei donuts; prima le fiabe russe di Afanasjev e poi i racconti dei Andersen; abolito Babbo Natale, creazione commerciale della Coca Cola: sembrano strofe di Destra-sinistra di Giorgio Gaber. Una continua Guerra fredda, che si riflette anche nello scontro tra i genitori di Elisabetta (a tratti ironico, visti gli oggetti di discussione): una pasionaria femminista contro un borghese, credente e probabilmente filomonarchico. Ciò che desidera la figlia non è altro che omologazione: assume una connotazione negativa se vista con gli occhi dell’adulto contemporaneo; diventa bisogno di inclusione dalla prospettiva di una bambina privata di certe esperienze basilari dei suoi coetanei.

Vivendo ogni attività del partito, Elisabetta inizia a porsi delle domande di un’ingenuità disarmante: L’autrice Patrizia Carrano affida proprio alla bambina il compito di osservare le criticità del comunismo, italiano e mondiale. Se il Partito promette “di non lasciare mai solo nessuno”, come mai la sua amica Cesira è costretta a vivere in una baracca? Di fronte a un cappotto, di taglia molto grande, destinato a Krusciov, è contrariata e perplessa: “non le piace l’idea che il capo dell’URSS sia grasso come i capitalisti ciccioni che ha imparato a detestare”. La propaganda contro il modello occidentale si rivela un’arma a doppio taglio nelle mani di una bambina e nella sua logica lineare, in cui A è sempre uguale a B. Anche il mito dell’Unione Sovietica terra felix si sgretola al giungere in città di una compagnia di balletto ungherese. Uno dei componenti ha chiesto asilo politico in Questura: “Elisabetta non sa che pensare. L’idea che qualcuno voglia scappare dall’Ungheria o dall’URSS le pare insensata”. Si interroga anche sul braccio di ferro nucleare tra superpotenze, con un candore che gela il lettore: “perché è orribile che gli americani abbiano la bomba atomica, ed è bene che ce l’abbia l’URSS?”. Domande alle quali risulta scomodo rispondere autenticamente, soprattutto se si fa parte di uno dei due schieramenti.

Persino la madre sembra avere dei dubbi su alcuni princìpi del partito, e riguardano l’essere donna all’interno dell’organizzazione. È sicuramente un’anticonformista per i suoi tempi, essendo madre separata, atea e indipendente da un uomo; pensa di aver trovato un ambiente che appoggi o almeno non ostacoli le sue scelte. Invece sembra che debba seguire una “vera e propria ortodossia del privato, che riguarda la sfera personale, familiare, e anche sessuale”. Quelle regole le stanno strette, e inevitabilmente si pone delle domande:

Non sarò mai la compagna perfetta, che mette le lasagne rosse in tavola, bada al marito e ai figli e la domenica diffonde Noi donne. […] Possibile ci sia una sola maniera di essere una donna comunista? E come mai questa ‘ortodossia’ […] riguarda più le donne che gli uomini? Quando accendo una sigaretta per strada i compagni mi guardano male, mentre loro fanno la stessa identica cosa. […] I problemi di cuore non mi devono sfiorare, se voglio sperare di ottenere un ruolo dirigente? E invece io sono sposata, separata […]. La maggior parte dei dirigenti del Partito si è rifatto una vita, e questo non ha influito sulla loro carriera politica. […] Dimmi una dirigente comunista che ha potuto fare la stessa cosa senza che le dessero della mignotta!

In altre parole: bella l’uguaglianza a patto che non si sia donne; il Sessantotto appare ancora lontanissimo.

La bambina che mangiava i comunisti è un libro disarmante: Patrizia Carrano fa dell’ironia lo strumento con cui svelare le crepe di un movimento importante della storia politica mondiale. Ma è anche un romanzo sentimentale e nostalgico di un tempo in cui la politica muoveva le coscienze delle persone e dava loro speranza, in cui in entrambi gli schieramenti si registrava una partecipazione inimmaginabile nel Belpaese di oggi, che ignora cosa voglia dire senso di appartenenza.

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