Difficilmente sono d’accordo con l’espressione di pareri manichei su una lettura; questa volta invece, la singolare costruzione narrativa di Esecuzione dell’ultimo giorno di Lorenzo Chiuchiù spinge anche me a ridurre il dibattito a poche e drastiche parole: o lo ami o lo odi. Forse il suo fascino risiede proprio in questa dicotomia di emozioni.

Viktor Semënov è un pianista di origini russe, un giovane trentenne nel cui corpo convivono la passione per la musica, spesso sfociante in cieca ossessione, e un uragano di pulsioni autodistruttive: si sente immortale e contemporaneamente sembra bramare la fine. Con questo spirito, conduce una vita connotata da strascichi libertini ottocenteschi: figlio unico, dilapidatore di patrimoni familiari, si è inventato una discendenza nobile “di cui sentivo insieme la miseria e la fatalità”.

Vivere la vita, diventare spettatore quotidiano della propria vecchiaia è il suo vero terrore, più della morte stessa, che non teme perché convinto di essere immortale. Importanti sono l’attimo e l’eterno, inconciliabili, il cui percorso per raggiungerli è croce e delizia del compositore: compiere un’azione epocale in campo musicale diverrà la sua ragion d’essere. Quell’azione sarà la composizione della sinfonia dell’Armageddon, la scrittura di una partitura in grado di evocare la fine del mondo:
“Morirò solo dopo aver composto la musica della fine, prima è impossibile, e non sarà una vera morte perché non ci sarà più una vera vita. Una musica ipnotica e cupa, un gregoriano cantato da morti con le bocche piene di terra: ecco la musica che avevo nelle vene. Ero immortale, la morte già circolava nelle vene come un antidoto”.

Inizia così un viaggio turbinoso nella mente di Viktor Semënov, spremuta nel tentativo di catturare una verità assoluta oltre alla realtà, distillandola in una rappresentazione sonora. Il flusso di coscienza del giovane compositore è contorto, avviluppato su se stesso, disorientante a tratti, interrotto da sporadici riferimenti al mondo che lo circonda. Come distratto dal trascrivere i suoi pensieri, l’occhio del narratore cade su oggetti comuni: orologi al mercatino dell’usato, un bottone staccato dal cappotto, gocce di pioggia in un temporale. Una narrazione surreale e introspettiva, macchiata qua e là da attimi di realtà ai quali Viktor si appiglia per non sprofondare tra i suoi pensieri.

Tutto è suono: “la realtà obbedisce ai suoni, […] non esiste la realtà, esistono solo il suono e le sue manifestazioni materiali e spirituali. Esiste una sillaba essenziale, […] gli uomini sono figli di questa nota”. Viktor tende al primordiale, ad eliminare i suoni superflui del mondo per risentire quella che un suo maestro definisce “la tromba della Genesi”. Per rendere concreto tutto questo, la sua partitura prevederà 1034 musicisti, seicento campane e spettacoli di luci, tutto svolto in una cornice post industriale.

Ispirato dalle vicende del compositore moscovita Aleksandr Nikolaevič Skrjabin, Esecuzione dell’ultimo giorno non è una lettura facile, sia per contenuto che per forma: la struttura narrativa poetica è uno degli elementi di cui parlavo all’inizio, che fa amare o odiare il romanzo breve di Chiuchiù. Allo stesso tempo, proprio il tentativo di dare voce all’inudibile, fisico e interiore, è il tratto che rende questa lettura magnetica e irrinunciabile.



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