Da irriducibile bibliofilo quale sono, uno dei miei film preferiti è La nona porta (1999) di Roman Polański. Dean Corso (un giovanissimo Johnny Depp) è un esperto di libri antichi, ingaggiato da un collezionista particolare: colleziona solo libri sul Diavolo. Perché tutto questo preambolo? Perché mi piace pensare che, tra gli scaffali di questo bibliofilo, possa trovare posto anche Talk Show con il diavolo di Marco Fornaro.

Don Davide Del Piave è un sacerdote sui generis; l’aspetto è quello di un prete rock: camicia nera senza colletto bianco, vistose sneakers, un tatuaggio che fa capolino dalla manica della camicia. Un uomo che non rinuncia ai vizi del fumo e dell’alcol, dall’aria trasandata di chi è risucchiato dal proprio lavoro, o forse sarebbe meglio dire missione. Don Davide è infatti un esorcista, lontanissimo dal personaggio cliché alla William Friedkin (il regista de L’esorcista): non crede che la possessione sia una manifestazione di Satana, bensì un meccanismo psichico di autodifesa, una catarsi; nulla che un profondo percorso di psicoterapia non possa risolvere.

Le sue convinzioni vacillano però ad Atri, piccolo comune abruzzese dove viene trasferito: la moglie di un politico conservatore di spicco è vittima del demonio; a nulla sembrano servire gli interventi di don Davide. Uno strano artefatto sembra essere legato a questo fenomeno, che farà preoccupare l’intera famiglia della donna e tremare anche le alte sfere della Chiesa. Un vecchio cimelio, uno specchio incastonato in una cornice appoggiata su zampe di leone e decorata con un Bafometto: “un idolo venerato dai templari, con sembianze ibride tra essere umano e capro”. Può davvero quell’oggetto intrappolare il demonio? Il poco dogmatico Don Davide, come un san Tommaso contemporaneo, decide di affrontare quelle dicerie, che si riveleranno una terrificante verità: “l’immagine che lo attende gli gela il sangue nelle vene. È lui, ovvio, ma diversamente da lui ha le braccia conserte e sorride con arroganza”.

Il riflesso farà riemergere il passato di tutti i personaggi coinvolti, scatenando reazioni incontrollate: il rimorso di un amore mai dichiarato, un tradimento celato dietro al vincolo dell’amicizia, una paternità soffocato dal talare porpora, sfortunati patricidi. Atri diventa così l’epicentro del senso di colpa, che attira gli sciacalli dell’informazione: due giornalisti, votati al demonio dello share e inizialmente intenzionati a intervistare il Papa, ora vogliono parlare con il Diavolo, in un tentativo di spettacolarizzazione del male e del dolore.

Talk show con il diavolo ha due punti di forza importanti. Il primo è di natura formale e riguarda la struttura narrativa: l’uso di flashback a lungo e breve termine danno ritmo alle vicende, arricchendo e complicando, nell’accezione positiva del termine, i personaggi. Si passa dalle vicende del presente, un post pandemia in cui al soglio pontificio siede Giovanni XXIV, in cerca di forme per riacquistare fedeli; al passato oscuro della destra extraparlamentare. I continui cambi di punti di vista narrativi sono facilmente districabili, mai sovrapposti uno sull’altro, in una sequenza perfettamente inanellata. Componenti che intrappolano il lettore, che sia amante del mondo esoterico o appassionato di intrighi ecclesiastici.

Il secondo invece riguarda la sostanza del romanzo. Una domanda che accompagna Don Davide e il lettore nell’arco della lettura, la cui risposta è svelata alla fine, è: chi è, o cosa è, il Diavolo? Forse la manifestazione reale dell’esistenza umana che, visto l’andamento del pianeta, è inevitabilmente destinata a vincere sul Bene. Una grande menzogna, inesistente? O un aspetto della vita con cui non si vuole fare i conti, in un mondo manicheo, dove si deve essere santi o dannati, mai una via di mezzo. E dove sta la via di mezzo? Nel confronto con sé stessi, nell’accettazione di questa dicotomia presente in ognuno di noi?

Sono molti gli interrogativi con cui, piacevolmente, Marco Fornaro lascia i lettori del suo romanzo d’esordio, dove il Male è personaggio principale e non antagonista e che, in fondo, il lettore impara ad accettare. Forse addirittura ad amare come parte di sé?



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