Comprendere per non fare di tutto il padre un Fascio.

Condividere e comprendere: un oceano etimologico divide queste due parole, troppo spesso confuse. Grandi problemi e incomprensioni nascono quando erroneamente si pensa che a una segua matematicamente l’altra; un’apocalisse è pronta ad esplodere se ciò avviene quando si parla di Storia. In particolare di quella del Novecento. Mio padre era fascista di Pierluigi Battista è un esercizio, non facile, di comprensione nella più pura e alta delle sue definizioni: capire l’animo e i sentimenti di una persona, al di là delle sue scelte. Un’opera di disarmo,viste le parti chiamate in causa.

L’autore è figlio dell’avvocato Vittorio Battista, reduce della Repubblica Sociale Italiana, sostenitore, fin dai suoi albori, del Msi (Movimento Sociale Italiano), amico di Giorgio Almirante. Nato, ironia della sorte, tre giorni prima della Marcia su Roma (25 ottobre 1922), cresce con (e in lui) il fascismo, fino alla sua sconfitta. Dopo il 25 aprile del 1945, è un uomo che non rinnega le sue scelte e il suo passato, che ha vissuto dalla parte dei vinti con sobrietà ascetica, silenziosamente, senza mischiare la vita pubblica-professionale con quella privata. È nella dimensione familiare, non giudicante, che invece dà libero sfogo al rimpianto e al sentimento nostalgico, che raggiunge toni macchiettistici. Tour razionalisti nella capitale, l’acquisto e l’elogio dell’auto sportiva dal retrogusto futurista; Latina torna ad essere Littoria nei suoi discorsi, infiocchettati in un italiano colto e privo dell’infetto slang dei “vincitori”.

Nel pubblico familiare c’è un Pierluigi Battista bambino che, inconsapevolmente, si sta sovraesponendo a un’ideologia per la quale svilupperà una repulsione totale in adolescenza. Adolescenza e anni universitari vissuti negli anni Settanta, forse il periodo di maggior tensione tra le opposte ideologie. Più o meno inconsciamente, abbraccia ciecamente gli ideali di sinistra: come per ripicca nei confronti del padre, diventa “il figlio antifascista di un padre fascista”. La sua condizione è croce e delizia nel mondo studentesco. Da un lato viene trattato come un pària politico, in virtù dell’insensata legge per cui le colpe dei padri ricadono sui figli. Ne nasce un senso di vergogna:

“sento la comunanza mai dichiarata con chi ha serbato per tanti anni dentro di sé un grande segreto. O che ha minimizzato, nascosto, vissuto come una condizione imbarazzante, oppure semplicemente accantonato per agevolare una buona riuscita nelle relazioni sociali, […] l’esser figli di fascisti in un mondo in cui l’antifascismo è ufficialmente l’articolo uno del bon ton ideologico”.

Dall’altro è motivo di vanto, arricchisce il curriculum del giovane dissidente, un po’ bohème, di sinistra:

“Raccontavo balle colossali sulla dura repressione che angariava le nostre vite nella casa di mio padre fascista. E loro se le bevevano, tutte. Mi dilungavo, compiaciuto sia pur con il volto sofferente per rendere attendibili i troppi soprusi patiti, su punizioni crudeli, arresti domiciliari. […] Mi compativano, neanche fossi un esule perseguitato dal regime franchista. […] Era dalla parte sbagliata [il padre, n.d.r.], ma non era la caricatura del fascista che la parte giusta voleva dare di lui e che io, per farmi bello e interessante, fui così vile da accreditare con le mie bugie”.

Con il tempo, il rapporto con il padre si incrina tragicamente, colpevoli i silenzi, le semplificazioni e, soprattutto, l’incapacità di ascoltare. Vittorio oscilla tra il tentativo di spiegare cosa avesse significato, a vent’anni, veder crollare tutti gli ideali fondanti della propria esistenza, giusti o sbagliati che siano, e la minimizzazione delle leggi fascistissime, sostenuta da fragilissimi però. Dall’altro lato, Pierluigi non perde nessuna occasione per rinfacciargli ogni azione del regime, accecato da un disprezzo che non gli permette di dividere la sfera politica e personale: “vivevo ancora, malgrado tutto, dentro una cornice di iperpoliticismo. […] Era mio padre, ma era fascista: non avevo la forza, e la voglia, di disgiungere nella mia testa e nel mio cuore due pezzi che dovevano essere […] inseparabili”.

È una questione di metodo: non si riesce a pensare al di fuori di uno schema manicheo, drammaticamente semplicistico, ma soprattutto vi è la presunzione di applicare principi di giudizio storiografico sulle esistenze personali (ammesso e non concesso che il ruolo della Storia sia dare giudizi). Non si può essere stati fascisti ma ammettere le tragiche responsabilità nella persecuzione degli ebrei; non si può essere antifascisti e provare a capire le scelte dopo l’8 settembre: due avversari pronti a scannarsi, che però non affrontano seriamente la questione, per paura che alcuni dogmi possano crollare, scoperchiando complessità e fragilità. Più facile, allora, fare di tutta l’erba, letteralmente, un Fascio.

Troppo presto per farlo? Forse sì, in effetti non abbiamo ancora digerito l’Unità d’Italia e abbiamo ancora qualche reflusso del derby Papa-Imperatore.

Sarebbe possibile? Un precedente di dibattiti e accettazione (non di condivisione, sia chiaro: a quanto pare è necessario sottolinearlo sempre) c’è stato. Un esempio riguarda la guerra civile americana, su cui si è creato un dibattito nonostante “la loro complicità (degli sconfitti, n.d.r.) con le nefandezze dello schiavismo e del razzismo”.

Auspicabile? Assolutamente, e leggere Mio padre era fascista è un valido esercizio per iniziare a porre delle basi solide per il cambiamento.

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