Voci dalle carceri israeliane.

Trattare il conflitto israelo-palestinese ha sempre voluto dire affrontare un pubblico altamente polarizzato ed emotivamente coinvolto; farlo dal 7 ottobre scorso in poi, ancora di più. Tifoserie che scomodano antisemitismo, presunta legittimazione del terrorismo e illegittimi stati come armi per screditare il nemico, alle volte senza dare voce, o voler ascoltare, i diretti interessati. Ben prima dei fatti di ottobre, quando l’attenzione mediatica sulla Palestina era meno forte, Foglie di gelso di Aysar al-Saifi ha rappresentato l’eccezione: una raccolta di racconti di prigionia, direttamente dalle carceri israeliane, che da la possibilità al lettore di sintonizzarsi con lo stato d’animo di chi è da decenni dietro le sbarre.

Uno degli aspetti che più emerge da Foglie di gelso è la componente di violenza gratuita, perpetrata su diverse scale, subita non solo dai dissidenti palestinesi ma da tutta la popolazione. I trasferimenti dalle carceri al tribunale avvengono mediante la “posta”, furgoni metallici e gelidi, sui cui sedili vengono incisi messaggi dei detenuti, nella speranza che vengano letti dai compagni di lotta incarcerati. Anche i checkpoint ospitano strumenti di tortura, come la “scatola”, un cubo di metallo lasciato sotto il sole medioerinetale, dentro il quale i civili, rei solo di essere palestinesi, vengono rinchiusi per ore. La violenza può però essere più subdola, può colpire tutti quei gesti di quotidiana normalità che il lettore, dandoli per scontati, non immaginerebbe mai: persone private di andare al mare, di lasciare la propria casa, persino di godere della compagnia di un gatto.

In queste privazioni, seppur con fatica, resistono le relazioni: i rapporti familiari sono centrali nelle lettere dalle carceri, specialmente i legami madre-figlio. Lettere rubate, clandestine, cariche di speranza per il domani nonostante le lunghe condanne da scontare. Le parole delle “foglie di gelso”, le lettere inviate da dietro le sbarre, sembrano rivolte alla tanto idealizzata patria, che mai come in questo caso è anche madre: 

“gli anni sono passati e non manca molto, mamma. Una nuvola nera che passerà, […] a quel punto tornerò tra le pietre della vecchia casa, le conterò nuovamente e correrò tra i miei ricordi rimettendone insieme, dopo vent’anni, quel che riesco”.

Parole in viaggio, come semi sparsi in tutto il mondo, dalle migliaia di esuli costretti a lasciare la propria patria, fiduciosi di tornare, un giorno, sotto i gelsi delle proprie case, per riassaporare il dolce della quotidianità senza conflitto.

Come la speranza, purtroppo, anche l’odio tra i popoli continua inesorabilmente a legare le generazioni, tanto le palestinesi quanto le israeliane. Quanto ancora queste parole si perderanno nel vento? Quanti altri giovani pagheranno il prezzo della follia dell’esercito israeliano e del terrorismo di Hamas? Dopo la lettura di Foglie di gelso, al lettore rimane l’amaro in bocca di questi interrogativi, a cui iniziare a pensarci vuol dire curare i germogli di tempi migliori, mai come oggi necessari.

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