Se un libro trasuda angoscia, o ci disturba, o ci pone di fronte a degli interrogativi che avremmo volentieri evitato. Se si avvera la seconda, allora si è di fronte a un libro scritto molto bene: recentemente ho sentito che i libri migliori non sono quelli con il finale finito e bello impacchettato, ma quelli con una chiusa stropicciata, incompiuta nella forma, nel quale il lettore innesta il suo immaginario e le risposte alle domande. Se si sta cercando tutto questo e non una trama ricca di intrecci, allora Il canto del profeta di Paul Lynch, vincitore del Booker Prize del 2023.

La quotidianità di Eilish Stack scorre in apparente tranquillità, in un’Irlanda dal tempo imprecisato, tra un preoccupante presente e uno scongiurabile futuro in cui alla guida del paese si è insediato il distopico partito National Alliance: lavoro stabile, un marito, insieme quattro figli da seguire. Un equilibrio che si spezza quando due agenti di polizia si presentano davanti all’uscio di casa: Larry, rappresentante del sindacato degli insegnanti, è sparito nel nulla. Il primo di una serie di fulmini a ciel sereno che si schianteranno su Eilish: l’insolita cartolina di leva per il figlio minorenne, difficoltà sul posto di lavoro, visite “educate” della polizia.

L’impressione che si ha leggendo Il canto del profeta è che sì ci sia un’oppressione forte, che non diventa apertamente violenta per buona parte del romanzo, ma che di fatto non succeda nulla di eclatante; non c’è la violenza diretta e il sangue che ci si aspetta nel racconto di una dittatura. Il lettore condivide il senso di angoscia montante in Eilish; sente la presenza costante, ma invisibile, del regime, in una sindrome di persecuzione che lo porta a guardarsi le spalle continuamente. La protagonista cade in un baratro di frustrazioni, sue e dei figli, da cui prova a estraniarsi concentrandosi su dettagli irrilevanti della casa, a cui associa un presente diverso da quello che sta vivendo.

Con l’aggravarsi dell’oppressione, scatta la rivolta ed Eilish si trova ad affrontare, oltre al regime, una guerra civile combattuta strada per strada. Nuovamente però, la violenza non si rivela davanti agli occhi della protagonista; è sempre mediata, dal racconto di un altro, dalle parole della radio, da ciò che avviene oltre le tendine della sua cucina. Paul Lynch, la descrive attraverso i suoni, sottolineando questa contemporanea presenza-distanza dai fatti:
“Nelle tregue tra gli spari si sentono richiami di voci maschili […] l’incessante e monotono annuncio di un soldato del governo attraverso un megafono. Tutti gli abitanti della zona possono sentirlo, potrebbe essere il direttore di un supermercato che pubblicizza sconti al bancone della gastronomia. Mandiamo qualcuno a cercarvi, quando vi troviamo sapremo chi siete, quando sapremo chi siete, identificheremo le vostre famiglie e andremo a prenderle. Arriva una cannonata che produce un’increspatura sottoterra, e la voce dell’uomo scompare”.
È nel trambusto degli scontri, e dopo un tragico evento, che Eilish precipita in un altro baratro, quello dei rimorsi. Non si dà pace, pensando alle sliding door salvifiche che il destino le ha messo davanti e che ha deciso di ignorare, nella speranza di riabbracciare suo marito: si chiede se abbia fallito come madre, come figlia, come cittadina.

Finire questo romanzo di Lynch senza empatizzare con la protagonista è difficile; il suo stato d’animo, le difficoltà di ogni giorno, sono potenzialmente quelle che potrebbe provare se chi legge vivesse nello stesso clima politico. Spesso ci si dimentica che la Storia, quella dei libri di scuola, non è solo generali e trattati internazionali; all’appello mancano spesso le piccole esistenze, che più di tutti vivono le conseguenze dei grandi capitoli dell’Uomo.
Non sono d’accordo con chi l’ha definita una lettura distopica, visto che è diventato sinonimo di 1984 (un termine di paragone abusato ormai), quindi di un classico, lontano nel tempo. Non è corretto definirla in questo modo soprattutto se si alza la testa dalle pagine e ci si sofferma sul vento che sta soffiando nel presente su alcune parti d’Europa, lontane ma non lontanissime: passare dall’idea che “il mondo finisce continuamente in un posto, […] mentre per altri diventa solo un vago avvertimento, un breve servizio al telegiornale” al “non si poteva mai immaginare, neanche in un milione di anni, che sarebbe successo quel che è successo”, è più facile del previsto.



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