“Il mondo è spaccato in due: chi ha già letto Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit e chi sta per farlo”: così il The Sunday Times recita sull’aletta dell’edizione che ho divorato ad agosto. A mio avviso, una definizione incompleta, perché il mondo è spaccato in tre: chi lo ha già letto, chi sta per farlo, chi lo rilegge dopo anni. Da qualche tempo infatti volevo tornare nella Terra di Mezzo; un richiamo così forte tanto da rientrare tra i buoni propositi del 2024: dodici anni sono passati dall’ultima volta che ho letto Il Signore degli Anelli, pietra miliare del fantasy e capolavoro di J. R. R. Tolkien. Sul primo titolo non ho dubbi, sul secondo, qualcuno: è davvero il miglior lavoro dello scrittore britannico o sono io che sono cambiato come lettore?

La storia si conosce, personaggi e vicende sono stati e sono ancora oggetto di analisi di illustri studiosi e fandom di tossicità più o meno elevata. Non mi soffermerò quindi su questi aspetti, quanto sull’esperienza di rilettura della trilogia tolkeniana, partendo dalla domanda che mi ha accompagnato per tutta la lettura: cosa ricerco oggi, come lettore, da un libro?
Perfettamente conscio che scrittura e cinema parlino due linguaggi diversi, non posso nascondere che, fin dai primi capitoli, mi sono reso conto di quanto la lettura fosse influenzata dalla trasposizione cinematografica. Conosciuti Frodo & Co. prima con i film e solo in adolescenza attraverso il libro, ritrovare le battute fedeli di quella trilogia, che ormai conosco a memoria, è stata sì una presa di coscienza del lavoro certosino di fedeltà che Peter Jackson ha fatto su pellicola, ma anche una forma di inquinamento della lettura. È stato così fisiologico apprezzare e ricercare maggiormente le “scene tagliate”, le discrepanze tra film e libro, non impresse nella memoria di lettore quanto, purtroppo o per fortuna, i fotogrammi dei tre film.

Un segnale di cambiamento rispetto al me lettore del passato de Il Signore degli Anelli è stato lo scarso interesse per i momenti di battaglia, alle volte narrati con fretta, gli stessi che da spettatore-bambino alimentavano la fantasia di me e mio fratello durante le passeggiate in montagna: ogni vetta diventava Caradhras, tutti gli alpeggi le praterie di Rohan, i boschi teatro di scontro con Uruk-hai feroci.
Ma ciò che è mancato di più, e forse qui è la risposta a ciò che cerco oggi come lettore, è stato un certo trasporto emotivo, il legame che si crea con i protagonisti di un libro. Molti dialoghi mi sono apparsi un po’ asettici: lì dove cercavo la profondità di una conversazione tra Arwen e Aragorn, Sam e Frodo (salvo momenti di bromance verso gli ultimi capitoli) o Merry e Pipino, ho trovato, e non apprezzato come prima, delle lunghe descrizioni del viaggio e della Terra di Mezzo. Unici ad avermi regalato emozioni vere sono stati Faramir ed Eowyn, personaggi marginali nel libro quanto nel film (forse mi sono piaciuti per quello?): il primo schiacciato tra il fantasma del fratello e il senso del dovere verso padre e regno, la seconda con la paura di vivere una vita in gabbia e all’ombra degli uomini della sua famiglia.

Rileggere Il Signore degli Anelli non è stata un’esperienza negativa, anche se le mie parole potrebbero dimostrare il contrario; è stata una duplice presa di coscienza. Il viaggio di Frodo non è il capolavoro di Tolkien, o comunque non lo è più per il lettore che sono oggi: la voglia di approfondire l’universo di Arda nelle sue “parti tagliate” e la ricerca di una maggiore complessità della narrazione Bene-Male mi porta a credere che sia Il Silmarillion ciò con cui, oggi, Tolkien potrebbe stregarmi e appagarmi maggiormente.
C’è un tempo per rimanere a bocca aperta davanti ai tesori di Erebor, uno per sognare di cavalcare a fianco di re Theoden nella battaglia dei campi del Pelennor, uno per interpretare e apprezzare le creazioni di Eru Ilúvatar. Saremo sempre a casa nella Terra di Mezzo ma, proprio come quando si torna nella propria stanza a casa dei genitori, la si troverà cambiata; ci troverà cambiati. Sarà sempre bello, ma diverso.



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