Negli Stati Uniti del primo Novecento esisteva un termine per indicare i giornalisti d’inchiesta sotto copertura: muckraker, letteralmente “spala-letame”; celebre fu l’inchiesta di Nellie Bly, giornalista che si fece internare in un manicomio per raccontare e denunciare le violenze subite dai pazienti. Ho fatto la Cam girl di Grazia Scanavini ha tutti i titoli per essere definita un’inchiesta del genere, sulla quale si innestano racconto personale dell’esperienza e riflessioni sul rapporto tra corpo, sessualità e denaro. Se ci si aspetta un j’accuse contro il fenomeno delle sexworker e del sesso virtuale, si rimarrà delusi: l’unico letame spalato dall’autrice in questo libro è proprio la moralizzazione del sesso per partito preso, dell’universo che ha esplorato in prima persona.

Il fil rouge seguito dall’autrice è la sospensione del giudizio, sia nei confronti delle performers sia dei fruitori dei contenuti; un approccio che vorrebbe diventasse automatico anche in chi legge, almeno in Ho fatto la Cam girl. Giudizio che involontariamente da lettore autoproclamatosi aperto, mi sono alle volte ritrovato ad esprimere: proprio lì, quando il “sì, ma…” si insinua, ecco che l’autrice, quasi come conoscendo le parti più soggette a dubbi, riporta il focus sul metodo da adottare per leggere la sua indagine. Sono tutti maniaci depravati quelli che frequentano questi siti? Sono tutte poco di buono quelle che decidono di fare la camgirl? È la morte della dignità del corpo di una donna? Questi e altri sono gli interrogativi ai quali si è messi di fronte.

Chi sono le camgirl? Difficile fare un quadro generale, essendo questo il racconto personale di chi sì si è calata profondamente in quella realtà, ma temporaneamente, al fine di indagarla, con un metodo investigativo ben definito a priori. Un punto di vista immersivo quindi, dove non è mancato il racconto dei dubbi e dei momenti di incertezza, ma che non può e non vuole parlare per tutte le camgirl. Sicuramente ciò che emerge è che non sono donne ipotetiche, lontane anni luce dal nostro vissuto: “non sono tutte modelle, o attrici mancate; ci sono più donne ‘normali’ che giovani fanciulle dal fisico statuario”. Risulta sennò difficile spiegare i numeri e i fatturati di queste piattaforme. Non tutte lo fanno per scelta o divertimento, molte invece per necessità di avere un guadagno veloce e superiore a lavori umilianti, per qualche motivo soggettivo, considerati più dignitosi (“se vai a pulire i bagni per cinque euro l’ora, sei una donna dignitosa, ma se vai a prendere soldi che gli uomini liberamente ti danno nel mercato del sesso, sei una brutta persona”). Non tutte sono poi consapevoli dei rischi dell’esporsi in rete e sulla possibilità che i loro contenuti vengano registrati e diffusi senza il loro consenso. Tutte sono però persone, vissuti, insiemi di scelte, che non possono essere giudicate nel tempo di una sessione in cam.

Chi sono i clienti delle camgirl? Sicuramente c’è una parte di pubblico che pensa di possedere le donne in cam, quindi di poterle trattare come vuole, per il solo fatto che stia pagando un prezzo. Se questo pubblico è lì principalmente per soddisfare un bisogno sessuale, nell’esperienza dell’autrice sembra che una parte cerchi prima di tutto un rapporto emotivo, seppur mediato dal virtuale. Dall’indagine della Scanavini emerge una fame di contatto autentico, un desiderio di essere ascoltati, sinceramente e senza giudizio: qualcosa che il virtuale, dietro a un nickname, può garantire meglio che nella realtà iper-moralizzante.

Quanto questo fenomeno sia un placebo e quanto risponda pienamente al bisogno di socialità, è difficile dirlo, certo è che non si può ignorare la sua esistenza. Forse una pluralità di testimonianze affiancate a quella dell’autrice, avrebbero reso l’indagine più completa, resta il fatto che Ho fatto la Cam girl è un punto di vista inedito, che accende la luce su un fenomeno che non può essere ignorato, ma contestualizzato e, se si mira ad accrescere la consapevolezza del mondo digitale, spiegato senza pregiudizi.



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