Vita di mafia: anatomia della criminalità organizzata

Ho letto molto di criminalità organizzata e di lotta alla mafia: testimonianze di magistrati che la combattono ogni giorno, vite votate alla fotografia e al giornalismo spese per tenere viva la memoria delle vittime di quei sistemi. Approccio tecnico-giuridico per i primi ed emotivo-documentaristico per i secondi, mancava una lettura dall’impostazione socio-antropologica, un vuoto che è stato colmato con Vita di mafia di Federico Varese, candidato a pieno titolo come agile e completa antologia sul fenomeno mafioso contemporaneo. Un quadro aggiornato al 2017, che ritrae lo stato dell’arte della criminalità organizzata, in particolare quella europea, nei suoi aspetti più profondi, facilitata anche dalla struttura dei capitoli del libro.

L’indagine di Varese è prima di tutto un lavoro di comparazione: l’autore mette infatti a confronto 5 organizzazioni mafiose tra le più influenti nel mondo ovvero Cosa nostra italiana, la sua versione americana, i vory di Russia e Balcani, la yakuza giapponese, le triadi di Hong Kong. Nonostante non ci sia una parentela tra di loro, una discendenza diretta (salvo il caso di Cosa nostra USA, nata dalla mamma italiana), si riscontrano aspetti comuni in alcune dinamiche interne ad ogni organizzazione. È ricorrente una certa sacralità nel rito d’affiliazione, durante il quale vengono scomodate icone sacre (Cosa nostra, vory) e rituali con incensi e sakè (triadi e yakuza). Immancabile poi il sangue, che rende gli affiliati fratelli, parte di un qualcosa estraneo ma comune, versato di fronte alla figura del garante. Un rapporto di mutuo aiuto e di cieca obbedienza ai superiori (quasi in tutte esiste un organo governativo, una commissione), che si basa su un apparente rapporto di uguaglianza: le mafie si sono infatti democratizzate, non fanno una selezione di tipo sociale o razziale, ma reclutano nuove leve proprio tra le minoranze discriminate dalla società. Un aspetto, questo, che dovrebbe suonare come suggerimento per le istituzioni che vogliono non solo combattere la cosca mafiosa lì dove ormai si è costituita, ma prevenirne la proliferazione.

Un altro aspetto interessante di Vita di mafia risiede nell’impostazione diacronica dello studio, riflessa negli otto capitoli del libro, che seguono da un lato le tappe fondamentali della vita di un affiliato alla mafia (Nascita, Lavoro, Gestione, Morte), dall’altro i suoi aspetti più intimi (Denaro, Amore, Immagine di sé, Politica) che possono far vacillare la loro credibilità. Tra quest’ultimi, Amore e Immagine di sé sono a mio avviso i più interessanti, perché svestono i mafiosi di quell’aura di superomismo, per alcuni modello aspirazionale in quanto a loro modo uomini di successo economico e portatori di presunti valori di un tempo: li fanno diventare persone comuni o, per evitare spiacevoli fraintendimenti apologetici, come dice l’autore stesso “non più intelligenti o più stupide di tutti noi, che commettono errori a volte si fanno imbrogliare”.

In Amore è analizzata la figura della donna nelle organizzazioni mafiose e il loro rapporto con mariti, fratelli, amanti affiliati. Come è noto, in tutte le organizzazioni analizzate nel libro alle donne non solo non è concesso ricoprire incarichi dirigenziali, ma addirittura affiliarsi alla mafia. Incapaci di uccidere e di essere violente (eppure la storia è piena di rivoluzionarie che non si sono tirate indietro di fronte agli scontri), troppo legate alla vita dei propri cari (se è necessario, bisogna uccidere anche i propri familiari. L’organizzazione prima di tutto, anche della famiglia), escluse poiché le gerarchie mafiose si rifanno per certi aspetti alla Chiesa, dove non è concesso loro entrarvi: queste alcune teorie strampalate che legittimano i mafiosi a considerare le donne inferiori a loro, declassandole a proprietà. Una miopia ipocrita, considerando invece il vero ruolo che le donne ricoprono nelle mafie: sovrintendenti del potere durante la carcerazione dei mariti boss, istigatrici alla vendetta, spietate nell’ordinare omicidi.

Immagine di sé tocca un tema attuale e spesso oggetto di grandi polarizzazione, vale a dire la rappresentazione della criminalità organizzata nella fiction, soprattutto a mezzo cinematografico. Federico Varese riporta diversi casi in Oriente di gangster che hanno vestito i panni di produttori cinematografici, con l’obiettivo di creare pellicole autobiografiche: il risultato è stato spesso deludente, bocciato dall’incontrollabile giudizio del botteghino. Un bisogno di autorappresentazione celante due desideri profondi che, se si sospende il giudizio dell’operato del malavitoso, muovono quasi a compassione: autoassoluzione da un lato, raccontando di virtù e valori inesistenti lì dove esistono solo denaro e violenza; bisogno di essere ricordati dalla società esterna all’organizzazione, dopo una vita passata più o meno nell’ombra.Caso più unico che raro invece riguarda Il padrino, che piace sia al pubblico che ai mafiosi, i quali copiano atteggiamenti e simboli dei Corleone: l’esempio di come la finzione diventi più vera della realtà.

Vita di mafia non è un libro delle risposte, non propone facili soluzioni al problema delle mafie ma pone l’attenzione sulle mancanze dello Stato che hanno portato alla loro espansione. L’incapacità di governare grandi stravolgimenti socio-economici e la scarsa considerazione della democrazia come valore assoluto da difendere, prostituita invece in nome del clientelismo, sono tra le cause sulle quali questa lettura vuole che ci si interroghi, per una presa di coscienza collettiva necessaria a sostenere le strategie messe in atto per sconfiggerla.

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