Non buttiamoci giù o come posticipare la fine, nove minuti alla volta

Come i fiocchi di neve, anche per le letture di un libro vale il teorema per il quale non ne esiste una identica all’altra: partecipare a un gruppo di lettura è la prova inconfutabile di questa regola aurea. Ciò che proverò a fare nei prossimi paragrafi sarà riassumere il punto di vista dei lettori che hanno partecipato al primo incontro del gruppo di lettura di Romanzoapranzo.

Un libro deve avere per forza intenti moralizzanti, qualcosa da insegnare a schiere di lettori-discepoli? Di Non buttiamoci giù di Nick Hornby si può dire di tutto, tranne che contenga qualsivoglia tipo di predica, nonostante il tema al centro del romanzo dell’autore inglese tenterebbe chiunque, al suo posto, a svelare il segreto della vita e della resilienza. A quasi vent’anni dalla pubblicazione, se si dovesse descrivere questo romanzo in poche righe si può dire che se gli spunti di riflessione sono ancora validi, non si può dire lo stesso della forma maldestra che oggi assumono.

È la notte di Capodanno, notte di bilanci, a quanto pare la prediletta per i suicidi. Sul tetto di un edificio abbandonato, celebre location per l’insano gesto, senza darsi appuntamento si incontrano quattro esistenze: Martin, anchorman caduto in disgrazia per uno scandalo sessuale; Maureen, madre che non sopporta più il dolore e il peso della disabilità del figlio; Jess, adolescente dal cuore infranto e incazzata con genitori; JJ, giovane rockstar fallito sul nascere. Ognuno vorrebbe saltare nel vuoto, nessuno trova veramente il coraggio; forse perché tutti non hanno mai pensato di volerlo realmente. Se si sono trovati forse è un segno: perché non posticipare di sei settimane la decisione, alla notte di san Valentino, per vedere se qualcosa può cambiare? In un istante, quei quattro sconosciuti sono diventati un noi che si sta fermando a vicenda, senza saperlo.

La profondità emotiva resiste prevalentemente nella prima parte del romanzo, cancellata poi da altri aspetti di Non buttiamoci giù. La comicità tagliente e controversa è una componente centrale nella scrittura di Nick Hornby, che non si ferma di fronte a niente, neppure alla morte. Se negli anni Duemila poteva risultare affilatissima, letta oggi ha però un po’ perso il mordente, scadendo nel trolling e nel clichè. Non migliorano poi la situazione una traduzione poco riuscita, allora come oggi di difficile comprensione.

Un altro focus della narrazione è la caratterizzazione dei personaggi, che risente anche qui forse dell’ironia dei primi anni Duemila: le battute tormentone, ripetute allo stremo, appesantiscono e rendono prevedibile i dialoghi e le risposte dei quattro. Tutti risentono di una macchiettizzazione, apprezzabile o meno: Maureen è lo stereotipo della timorata di Dio cattolica e remissiva; Jess è l’idea che un uomo ha di una giovane adolescente; Martin è il cinico egoista, JJ il poser che si sente un contemporaneo poeta maledetto.

Nonostante queste difficoltà, è impossibile non empatizzare con i personaggi, non tanto per quello che stavano per fare su quella terrazza, quanto per ciò che li ha portati lì. La storia di Maureen è sicuramente la più toccante: una madre che si annulla per il figlio; una mente intasata dal senso di colpa e costantemente occupata dal dovere di cura, che non può permettersi di pensare a una normale quotidianità. JJ è invece la personificazione della crisi dei trent’anni, di chi si sveglia dai sogni adolescenziali e capisce che diventare adulti può comportare anche delle rinunce. Più divisivo il giudizio su Jess e Martin, uno la punizione dell’altra: figura autoritaria e paterna lui; voce della verità senza filtri lei. Se la prima è il collante del gruppo, incompresa per i suoi modi bruschi, il secondo prova a redimersi semplicemente accettando di essere uno stronzo.

Che cosa rimane di Non buttiamoci giù? Se proprio non si riesce a rinunciare all’aspetto pedagogico del leggere, ciò che insegna è una banalità che a fatica si vuole vedere: la vita non ha un senso perchè si possono risolvere tutti i problemi, ma perchè si impara a conviverci. Non è altro che una ricerca continua di un pretesto per posticipare la fine di nove minuti in nove minuti: se ci si circonda delle persone giuste, la convivenza con gli affanni è più leggera.

Autodeclassato molto volentieri a braccio scrivente, ringrazio le menti di questi paragrafi: Alessandro, Carlotta, Davide, Giulia, Lucia, Martina.

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