La Russia del passato nel Volga del presente: un viaggio amaro

Quando ho visto Volga blues di Marzio G. Mian sugli scaffali di una libreria e ho letto la seconda di copertina, ho pensato fosse una versione contemporanea di Buonanotte, Signor Lenin, il racconto del 1992 di Terzani del crollo dell’Unione sovietica e di una nazione in apparente cambiamento. Col senno di poi, una suggestione per nulla originale, visto l’uso massiccio fatto da tutti gli articoli riguardanti il libro reportage di Mian. Mi aspettavo il racconto della Russia di oggi e invece, via via che le pagine scorrevano, come il Volga protagonista, mi sono trovato nella Russia di ieri, incastrato nell’incubo del giorno della marmotta che questa terra sembra non riuscire mai a spezzare.

Come la terra che racconta, Volga blues ha un’anima plurale; è tante storie. È prima di tutto la storia di un viaggio in uno spazio definito, dalla foce del Volga nell’ oblast’ di Novgorod fino al mar Caspio: 3531 chilometri percorsi insieme al fotoreporter Alessandro Cosmelli, tra San Pietroburgo, Nižnij Novgorod, Kazan’, Samara, Volgograd, Astrakan’. È anche un racconto semiclandestino di un paese così vicino all’Occidente ma oggi così lontano, in cui quello di giornalista è un mestiere scomodo: obbligatoriamente incompleto, le voci e le domande di questo libro si sono potute spingere solo fino a un certo punto. Ma è soprattutto la narrazione di uno spazio sospeso nel tempo, in cui presente e passato si fondono in un’opaca parentesi temporale: il nazionalismo di Putin, i sogni imperialisti degli zar, il comunismo spietato di Stalin. Principi indiscutibili e al contempo messi in discussione secondo le esigenze espansionistiche del nuovo zar di Russia, per il quale solo il nemico rimane lo stesso: l’Europa e l’Occidente, non tanto per i modelli economici liberisti di cui sono rappresentanti (il capitalismo non fa così schifo a Vladimir), quanto portatori di virus globalisti e progressisti che minano le radici cristiane russe.

Radici: una parola entrata prepotentemente nella politica, pretesto per smuovere la pancia del popolo lì dove sarebbe necessario smuovere la mente. Quali sono quelle della Russia? A quali si rifà il Cremlino oggi? La società che emerge dal reportage di Marzio G. Mian è accomunata da un sincretismo confuso e incomprensibile all’esterno, che ha creato un pantheon di santi, dittatori, guerrieri e astronauti. C’è il paganesimo dei contadini che nel Volga vedono quasi una divinità della fertilità, ma anche una componente cristiano-ortodossa fortemente reazionaria, braccio destro dello Stato e coscientemente ignara delle passate persecuzioni subite. Lo stacanovismo e lo spirito di abnegazione comunisti sono richiamati in causa per sostenere lo sforzo bellico: un rosso rivisitato, dove Stalin è elevato a icona, ritenuto un vincente e un eroe dalla genZ. Per ognuno di loro, i russi sono pronti a morire:

Se i russi credono in qualcosa, ci credono fino alla fine. Credono in Dio. Quindi sono pronti a morire per la loro fede. Credono nel comunismo, sono pronti a morire per quello. Credono nella Russia e sono pronti a immolarsi per la Russia. […] Siamo pronti a sacrificarci. Perché se non si vince, allora bruciamo tutto! Se non otteniamo questo futuro luminoso, allora che senso ha vivere? Come ha detto il nostro presidente, abbiamo bisogno di un mondo in cui non c’è la Russia come la desideriamo noi?

Ma i russi come desiderano la Russia? Guardando indietro, viene da pensare che vogliano una Russia pensata da altri al posto loro; si innamorano dell’idea di grandezza e votano le proprie vite alla causa fino a quando, ciclicamente, il sogno si schianta al suolo: “ai bivi cruciali della Storia, la Russia prova il piacere masochistico d’imboccare il sentiero sbagliato, un’istintiva attrazione per l’abisso e la sofferenza”.

Una rete di persone che aspira a qualcosa di diverso traspare come un ombra, ma è frammentata, sotterranea, fiaccata da vent’anni di putinismo in un paese dove anche le favole sono intrise di ideologia. Emblema di questa resistenza sconfitta in partenza è l’ex professore di filosofia incontrato nella periferia di Kostroma, che scrive per sé di una Russia europea, non eurasista come reclama il regime, perché “non ho la forza di fare l’eroe”.

Alla fine del viaggio, mi sono chiesto cosa mi fosse rimasto di questa incursione oltre il confine orientale d’Europa. L’amaro è il gusto che prevale dopo Volga blues: per una guerra che, vista dall’esterno e sfiorata dall’interno grazie al racconto di Mian, non sembra poter avere una fine nell’immediato (il libro è stato scritto poco dopo il tentato golpe di Prigozhin, ndr); per l’impossibilità di godere di città e paesaggi, oggi solo googlabili, che hanno stregato per ultimo il giornalista, per secoli scrittori e poeti. Per il futuro incerto, costantemente sull’orlo del baratro, a ogni notizia di agenzia sempre più vicino.

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