Come i fiocchi di neve, anche per le letture di un libro vale il teorema per il quale non ne esiste una identica all’altra: partecipare a un gruppo di lettura è la prova inconfutabile di questa regola aurea. Ciò che proverò a fare nei prossimi paragrafi sarà riassumere il punto di vista dei lettori che hanno partecipato al terzo incontro del gruppo di lettura di Romanzoapranzo.
Nella raccolta di saggi Letteratura palestra di libertà di Orwell, appare la definizione di scrittore engagé, un autore che, attraverso la scrittura, prende posizioni politiche, libero dalla politica stessa. Orwell è sicuramente stato uno di questi. Ma cosa vuol dire fare politica in letteratura? Prendere una parte? Attaccarne direttamente un’altra? Niente di tutto ciò, almeno in Palazzo Yacoubian di ʿAlāʾ al-Aswānī: all’autore egiziano è bastato raccontare le vicende di un condominio de Il Cairo, per fotografare problemi, sogni e speranze disattese di un paese, l’Egitto. Un racconto crudo sì, ma mai urlato: una storia i cui personaggi hanno conquistato il mondo arabo, rendendo Palazzo Yacoubianil romanzo più venduto nel mondo arabo.

Il perno attorno a cui ruotano i protagonisti di questa commedia è, appunto, Palazzo Yacoubian: un edificio forse eclettico, dall’aria bohème, che ha visto sicuramente tempi migliori; una cattedrale lussuosa nel povero deserto che è la periferia de Il Cairo.Nei suoi ambienti è rappresentata la società egiziana, dalla base fino alla punta della piramide sociale: Taha, il figlio del portiere che, nonostante il classismo dei condomini, sogna di entrare in polizia per contribuire a migliorare il paese; Zaki al–Dusuqi, ricco ereditiero e tombeur de famme, che vive nel ricordo dell’occidentalismo e della ville lumière, seguito sempre dal fedele Abaskharon, servo zelante che truffa sapientemente il suo padrone. E ancora: Hatim Rashid, noto giornalista autodefinitosi “gay conservatore”, che vive notti di passione clandestine con altri avventori del locale omosessuale Chez-nous; la giovane e avvenente Buthayna, costretta a subire molestie e ricatti da uomini ricchi; Hagg ‘Azzam, losco uomo d’affari che vuole entrare in politica, taciturno e molto religioso.

Le loro esistenze si intrecciano in un crescendo di complessità e dolore; centrali le vicende di Taha, Hatim e Zaki. Il primo vede il suo sogno infrangersi contro la totale assenza di meritocrazia in Egitto: la delusione diventa odio, l’odio vendetta jihadista, alimentata da un fondamentalismo che sembra l’unica alternativa per gli sconfitti. Hatim opta per un educato isolazionismo, che gli permette di vivere la sua sessualità: il suo progressismo si trasformerà in classismo, e lo porterà a un sanguinoso epilogo, quando si troverà di fronte a un amore non più corrisposto. La storia d’amore tra Zaki e Buthayna è l’unica luce di speranza in un Egitto claustrofobico, fanatico e corrotto, che sottolinea però un aspetto centrale in tutto il libro: se hai potere, in questo caso economico come quello di Zaki, sopravvivi e puoi illuderti di vivere nel paese più bello del mondo.

La critica aspra di Alāʾ al-Aswānī al paese non è mai al centro della narrazione, bensì fa da cornice. Importante tanto quanto le storie dei personaggi, si articola attorno a tre soggetti: l’uso strumentale della religione e il relativo fanatismo, le donne, l’immobilismo del popolo. Dio e il Corano sono tirati in mezzo continuamente, invocati come protezione per gli affari, o dai potenti come avalli del martirio per convincere i poveri a fare i loro interessi. Le donne, nonostante la legge coranica e la subalternità ai personaggi maschili, sono le figure ribelli di Palazzo Yacoubian: provano a invertire le decisioni prese degli uomini, qualcuna ci riesce persino. Sono le uniche che hanno uno sguardo oggettivo sulla realtà delle cose; i loro pensieri e le loro parole sono taglienti, squarciano il velo di ipocrisia che annebbia gli occhi privilegiati degli uomini.

Velatamente, l’autore si rivolge al suo primo pubblico, il popolo egiziano, provando a scuoterlo. Lo accusa di abituarsi in fretta alle ingiustizie, soprattutto se non coinvolgono direttamente il cittadino-lettore, e di chinare la testa davanti al potente di turno, senza distinzioni. “Abbiamo studiato a fondo la psicologia del popolo egiziano. […] Dio ha creato questo popolo per essere dominato. Nessun egiziano sa disobbedire al proprio governo”: quando un popolo arriva a pensare, ad accettare, questo di se stesso? Forse quando lotta per la sua sopravvivenza quotidiana, allora è lì che ci si rassegna ai problemi e risolve la questione attribuendola al destino.
Lasciare molte delle storie aperte è un modo per interrogarsi sulle condizioni del paese, con la possibilità di scrivere un finale diverso.
Come sempre autodeclassato volentieri a braccio scrivente, ringrazio le menti di questi paragrafi: Alessandro, Carlotta, Martina, Serena, Silvana.



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