Ho incrociato Letteratura palestra di libertà in una di quelle sessioni di acquisto compulsivo di cui i bibliofili soffrono cronicamente: sull’onda dell’entusiasmo post 1984, avevo deciso di comprare TUTTO ciò che George Orwell aveva scritto. Ricordo di non averlo apprezzato molto, forse lo abbandonai persino, dopo una cinquantina di pagine, sconfortato dalla forma del saggio. I libri cambiano, i lettori anche, e oggi questa raccolta di saggi dell’autore britannico più prolifico e forse più citato (spesso a sproposito) della contemporaneità ha acceso la luce sul mio rapporto con la parola, che sia solo letta in un romanzo o scritta in un articolo. Quale ruolo deve e non deve ricoprire un autore? Come e perché scoppia l’amore tra scrittore e suo potenziale lettore? Il libro può prescindere dall’atto politico? Queste e molte altre riflessioni sono racchiuse in questa dozzina di scritti orwelliani.

La relazione essere umano-libro è indagata nei saggi iniziali della raccolta, e sembra basarsi su un assunto di Ranganathan, padre della biblioteconomia moderna, all’apparenza banale: per ogni lettore c’è un libro; per ogni libro c’è un lettore. Le vie per cui ci si imbatte in un nuovo autore sono molteplici: il passaparola, una copertina rubata durante un viaggio in treno, gruppi di lettura, reel, blog che parlano di libri e pubblicano il venerdì all’ora di pranzo. Proprio come con le persone, però, ci sono autori e libri che si ha la sensazione di conoscere da sempre, che fanno parte della propria vita fin dall’infanzia, come quello zio esuberante che sfida il trascorrere del tempo. La bulimia letteraria permette di conoscere a fondo uno scrittore, non senza qualche rischio: istituzionalizzare un autore, al limite dell’idolatria, può portare a un continuo confronto con altri suoi colleghi, definendo un termine di paragone assoluto che non sempre può essere oggettivo. Il lettore innamorato, dopo una lettura particolarmente apprezzata, vive le altre opere del suo beniamino con la continua speranza che siano esattamente come il primo libro letto, dimenticandosi che “un uomo che scriva due volte lo stesso libro non riuscirebbe a scriverlo neanche la prima volta”.

Sulle abitudini dei lettori, George Orwell regala un affresco senza tempo nel saggio Ricordi di libreria. Tra il 1934 e il 1935, lo scrittore lavorò in una libreria dell’usato londinese, “una specie di paradiso finché non ci si lavora”: ciò che emerge è che gli avventori di ieri non sono tanto diversi da quelli che oggi si aggirano tra gli scaffali dei grandi store, e rispondono ancora a regole e cliché destinati all’eternità. L’irragionevole, a parer mio, attrazione per i polizieschi; la poca familiarità, questa volta condivisa, con il genere racconto; il triste dogma del mercato editoriale: i libri si vendono solo a Natale, perfetta soluzione per uscire dall’impasse natalizio, con annessa demoralizzante possibilità di riciclo. Se le vendite non potevano ancora essere spinte dalle interviste domenicali di un Fazio inglese, il recensore di libri giocava un ruolo importante nella promozione di questi. In Confessioni di un recensore solleva un terribile velo sopra il circolino dei professionisti della parola al servizio della narrativa, confessando di non leggerli per intero ma “almeno 50 pagine”: e se il libro peggiora o migliora alla 51esima pagina?! Come il barista per il nauseabondo odore dolciastro dei croissant al mattino o la guida turistica per l’ennesima volta di fronte a un capolavoro artistico, secondo Orwell il recensore di libri poche volte prova entusiasmo per la materia prima che tratta. Può contare sulle dita delle mani i libri buoni di cui avrebbe voluto parlare sinceramente, se non fosse stato schiacciato dall’ansia delle scadenze editoriali.

La qualità dei libri è un tema ricorrente in tutta la raccolta di saggi, in uno di questi, però, l’autore si sofferma su una specifica tipologia di lettura: i buoni brutti libri, una definizione dello scrittore britannico G. K. Chesterton. Si tratta di “quel tipo di libro che non ha pretese letterarie ma rimane leggibile anche quando opere più serie si sono eclissate”: romanzi cosiddetti di evasione, o per usare un’etichetta più contemporanea, di quelli da ombrellone, spesso figli di autori capaci di sfornare libri a ritmi da fast food. Fast publishing, si potrebbe definire: se non è stato coniato il termine, pianto immediatamente la bandiera verde e nera di Romanzoapranzo e ne rivendico la paternità. Sono quelli che non vogliono per forza impegnarsi e impegnare il lettore, ma che in qualche modo scorrono: non è forse questa, scorre, la risposta che si dà d’istinto quando stiamo leggendo un libro che ci sta piacendo? La scorrevolezza, intesa come sopra, è quindi un elemento che può decretare l’immortalità di un libro: se penso agli scaffali della mia libreria, mi accorgo di aver letto molti libri che volevano dire qualcosa, chi con più presunzione, chi meno, ma anche che, dopo averne letti un paio di seguito, cerco un po’ di evasione. Evasione che anche è ben rappresentata sugli scaffali, senza complessi di inferiorità.

Per emanciparsi dal titolo di brutto, la scrittura di un libro deve essere impegnata, politica, frutto del lavoro di un autore cosiddetto engagé? Per i posteri, George Orwell è l’emblema dell’autore politico, odiato da sinistra e destra in base a faziose motivazioni, mai compreso realmente: è stato un intellettuale con convinzioni forti, che ha sostenuto attivamente (vedasi la partecipazione alla guerra civile spagnola), ma sempre da libero pensatore. Analizzando la figura di Dickens, nell’omonimo saggio, Orwell sottolinea il vero ruolo dell’intellettuale, valido allora come oggi: non ha il dovere di distribuire soluzioni o alternative, ma di porsi e far porre delle domande, indipendente dalle dinamiche politico-partitiche. Critica aspramente i suoi colleghi onniscienti, che scrivono cosa sia giusto che il lettore pensi; tuona contro la sinistra oltranzista e filosovietica (“il pensiero di sinistra è quasi un giocare col fuoco da parte di gente che non sa neppure che il fuoco scotta”), che ama autodefinrsi solo e sempre per negazione, arroccata solo sull’antifascismo in assenza di alternative concrete:
Gli stessi che per vent’anni avevano schernito con superiorità gli isterismi guerrieri furono i primi a ripiombare nella miseria mentale del 1915. Tutte le idiozie tipiche di un periodo bellico – la caccia alle spie, il fiuto per l’ortodossia (sniff, sniff, sei un buon antifascista?), i dettagliati resoconti di incredibili «atrocità» – tornarono in voga come se gli anni intermedi non fossero mai trascorsi.

Letteratura palestra di libertà invita a riflettere sulla complessità del rapporto con la lettura, il libro e l’autore e sulle loro funzioni. Un libro illuminante e a tratti confortante, di quelli di cui continui a sottolineare paragrafi su paragrafi, come a incidere meglio la soddisfazione di aver trovato qualcuno che in passato ha messo nero su bianco i tuoi pensieri.



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