Maldestramente parlo di libri sul web, in modo terribile sui social: la presunzione di diventare una BookTok icon è scarsissima, altissima invece la consapevolezza di essere una BookTok victim. Il complesso è quello che affligge i lettori onnivori contemporanei, vale a dire una lista di libri che a ogni scroll lievita: in barba a ogni priorità della suddetta lista, per colpa di un reel mi sono catapultato in libreria per avere Benito, presente! di Paolo Ruffini tra le mani. Era molto tempo che non leggevo un libro di fresca pubblicazione (febbraio 2025) e allo stesso tempo che non ne divoravo uno in due giorni scarsi; gli ingredienti segreti di questa buona riuscita stanno nella sua struttura teatrale, nell’ironia dei dialoghi e in un paradosso difficile persino da scrivere: provare empatia per il Duce, che ancora dittatore non è. Se qualche algoritmo non dovesse comprendere questa frase perché la sua soglia di attenzione si ferma al primo paragrafo di un articolo, spero che quella di chi leggerà andrà oltre per capire il perchè di questo paradosso.

Un “nostalgico professore tardocomunista”: basterebbero queste parole per creare l’immagine di Edoardo Meucci, protagonista del romanzo, ma sarebbe un peccato perdersi il lavoro di caratterizzazione del personaggio fatto dall’autore. Professore di storia all’illustre liceo classico Parini di Milano, il Meucci ha fatto dell’essere radical chic la sua essenza. Reazionario rispetto alla tecnologia, che lo spinge a un attaccamento morboso al proprio Nokia; troppo giovane per essere un boomer ma già in grado di utilizzare sapientemente e a sproposito il ai miei tempi era meglio e i giovani d’oggi; frustrato come solo quell’insegnante che tutti abbiamo incontrato almeno una volta sui banchi di scuola sa essere, che riversa tutto il suo odio sugli alunni. È convinto che solo lui abbia compreso la vita e presumendo di poterla spiegare al mondo (che ovviamente non ha la capacità di articolare un pensiero), ha fatto del fascismo la sua ossessione onnipresente, e dell’antifascismo il suo cavallo di battaglia. Non che questo secondo aspetto sia un disvalore, per carità, ma quando, come tutte le cose, diventa l’unico argomento di conversazione (ammesso che con uno come Meucci possa esserci uno scambio dialettico), il rischio di diventare insopportabili sorgerebbe anche al più vecchio tesserato ANPI.

Se la sua vita sembra un disastro, è anche vero che al peggio non c’è mai limite, valicato quando un suo alunno pronuncia parole al sapore di criptonite per Meucci: dopo un classico dei classici “Mussolini ha fatto anche cose buone”, arriva l’accusa di essere un fascista. La reazione esagerata del professore gli costerà cara, e il contrappasso lo punirà due volte: non solo riceve una lezione di democrazia dal padre nostalgico dell’alunno, ma viene trasferito in una scuola elementare. Privata. Con sede a Predappio.La campagna romagnola è un altro mondo per il protagonista, che pensa sia mossa, in ogni suo momento, da sentimenti nostalgici: un ritorno al passato che vede solo lui, accecato dalla sua ossessione per il fascismo. Ma un giorno, proprio quel passato bussa alla sua porta: durante un temporale, uno shock temporale indotto alla Non ci resta che piangere, causato dal contemporaneo cadere di un fulmine e dallo scontro accidentale con Luigi Cosentino, collega e compagno fieramente anarco-comunista, riporta i due indietro al 1890. Dietro a un banco, siede un bambino di sette anni, indisponente ed esagitato: quel bambino è Benito Mussolini.

La missione per Cosentino è una sola ed evidente: devono uccidere Mussolini prima che possa crescere e combinare i disastri e i crimini del fascismo. Davanti a questa scelta, quelli che apparivano ideali granitici di Meucci, iniziano a scricchiolare: per una volta, forse la prima, si mette in discussione:
“Se da bambino avesse un’ispirazione, o un sogno da coltivare che lo portasse a fare grandi cose, ma nel bene, anziché nel male? […] Ho deciso che io insegnerò a quel bambino che cos’è la civiltà. Io diventerò il maestro di Benito Mussolini. Un mondo diverso è possibile. […] Vuoi giustiziare un bambino di sette anni per crimini non ancora commessi? Noi non lo conosciamo neanche…”.
Passando del tempo con il bambino, durante il quale il piccolo Benito sperimenta per la prima volta l’affetto sincero, anche Meucci cura la sua incapacità di amare. Scopre l’altro e la potenza dei piccoli gesti, che educano più di mille sproloqui storici e simposi filosofici: un cambio di passo che, sul filo della tragedia finale, assolverà moralmente il professore.

La finzione letteraria è quello spazio in cui regole e convenzioni possono interrompersi, mutare drasticamente, per cui si può ridere di due professori che sfottono un dittatore in fasce che ancora non sa di esserlo, giocando su cliché del ventennio e su alibi stantii che alcuni nostalgici usano per riabilitare la figura di Sua Eccellenza. Ma è lo stesso luogo in cui ci si ritrova a empatizzare con la persona Benito, vessato e incompreso dal mondo adulto, che non lo ama o lo vorrebbe eliminare per colpa del personaggio Mussolini che ancora non è. Un cortocircuito che spiazza il lettore di questa tragicommedia: visti i tempi teatrali dei dialoghi, una trasposizione su palcoscenico non sarebbe una cattiva idea.
Paolo Ruffini con Benito, presente! è riuscito nell’impossibile, con un pretesto narrativo insolito e accattivante, che c’entra poco con lo scomodo co-protagonista: è riuscito a raccontare la forza della gentilezza e dell’altruismo nel tempo (presente) dell’egoismo e del pregiudizio. Perché “l’amore, è amare così tanto qualcun altro da fargli imparare ad amare se stesso”: un’arma in grado di sconfiggere il dittatore che vive in ognuno, presente o futuro che sia.



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