Sconfiggere, dall’antico provenzale esconfire, figlio del latino ex-conficere: consumare, abbattere. Gli sconfitti: esseri consumati dal sogno infranto di un destino diverso, drammaticamente abbattuti dall’ingenuità, quasi infantile, di poter rompere meccanismi sociali granitici, arrugginiti ma secolari. Sono questi i protagonisti di Malarazza di Emilio Nigro, una raccolta di otto racconti (Gaetano, Alcerti, Cocci, Il figlio del sagrestano, Vene, La capuzzella, Binario morto, Mangiafuoco e Morsitinto) dall’andamento dolceamaro: la bocca del lettore si impasta di aspre speranze, vanificate a ogni voltar di pagina, eppure a ogni nuovo inizio, lo stile di scrittura dell’autore incanta e lascia ciclicamente sognare chi legge che il prossimo racconto possa risolversi diversamente.

La raccolta si presenta agile, al primo sguardo sbrigativa se ci si ferma solo al numero di racconti e alla loro brevità. Quello che rivela invece è una ricercatezza di linguaggio e di costruzione sintattica che fa di Malarazza un’opera di cesellatura, alla faticosa (e riuscita) ricerca della parola giusta. Le descrizioni si fanno ermetiche, ridotte all’osso; l’andamento paratattico si scompone come in un quadro cubista, dove le parole sono chirurgicamente selezionate, ora per dare rilievo al verbo e all’azione, ora per mettere in luce l’aggettivo e il colore. Strumenti usati per cristallizzare e fotografare un’emozione in forma di complemento.
La fotografia: altra protagonista della raccolta. Le descrizioni rivelano suggestioni da cinema sorrentiniano; si può quasi percepire un filtro patinato, seppiato, sulle vicende e sui dialoghi dei protagonisti, che regala un andamento nostalgico della narrazione, di quello che prova chi avrebbe voluto che la propria vita fosse andata diversamente.

Un senso di amarezza e di sconfitta, accettata per consuetudine, accomuna i protagonisti degli otto racconti. Il sogno di un’amicizia schiantata dal classismo; famiglie che voltano le spalle nel momento del bisogno; fratelli rosi dalle faide ereditarie; rivoluzionari disillusi, ingenui sostenitori della coscienza di classe, coppie che si ritrovano ormai inevitabilmente cambiate dopo anni. Non sono stati loro gli artefici dei propri destini; certamente ognuno avrebbe voluto un finale diverso per le proprie vite. La regina incontrastata in Malarazza rimane la rassegnazione, a schemi sociali e geografici che neanche il tempo presente è riuscito a scardinare.
Il Sud è presente in tutta la raccolta, presentato come “feticcio del basso, dei meridioni, di tutte le intestina del mondo”: ammetto di averlo percepito poco, non in maniera incisiva, rapito principalmente dai personaggi e da dinamiche che sento attraversino tutto lo Stivale. Forse proprio su questo, sul dramma familiare e sociale, si basa il nostro sentimento di unità nazionale. Almeno in letteratura.

Si è sempre il meridione di qualcun altro, sempre pronto ad affermare una presunta inferiorità morale che col tempo si assimila, sempre più difficile da sradicare. Malarazza è il racconto riuscito di un Sud interiore, di quel sentimento di aperta sconfitta che ogni lettore ha vissuto e con cui non può che empatizzare. Anche chi se ne sente geograficamente lontano.



Lascia un commento