Bourdain non amerebbe “4 ristoranti”: cronache crude dalle cucine reali

Universo che in questo libro ha come astronauta in divisa da chef Anthony Bourdain, forse il cuoco mediatico ante litteram prima che il cibo diventasse lo stracotto intrattenimento televisivo che conosciamo oggi. Nato tra le luci di Manhattan da genitori di origini francesi, il suo incontro con il cibo potrebbe definirsi epifanico. Un’ostrica, offerta da un pescatore della Gironda appena colta dalla sabbia, svela come nella celebre scena del suo collega Remy in Ratatouille, già citata in questo blog, un mondo nuovo: “avevo imparato qualcosa […], il cibo aveva potere. Era in grado di ispirare, sbalordire, sconvolgere, eccitare, deliziare e fare colpo. Aveva il potere di piacere a me… e agli altri”.

L’approccio da quel momento è avventuroso e sfrontato: non c’è sapore che le sue papille gustative non vogliano incontrare, non c’è ristorante in cui non pensa di poter agguantare il mondo e insegnare a cucinare.

Non aveva però fatto i conti con i veterani dei fornelli, gente indurita da anni di tagli e scottature, che subito lo fanno precipitare nella realtà: per desiderio di emulazione o di discostamento, si iscrive al Culinary Institute of America di Hyde Park, fucina di aspiranti stelle Michelin. Ho sentito una certa vicinanza e nostalgia con queste pagine di formazione, non solo nei termini citati (hors d’oeuvres, aspic, mirepoix non risunavano nelle mie orecchie da almeno dieci anni) ma anche nel modo di insegnare l’arte gastronomica: preparazioni pesanti nel nome dell’immortale Escoffier, fuori dal tempo allora (le cronache scolastiche di Bourdain risalgono alla fine degli anni Settanta) come lo erano, mi sto maledicendo per quello che sto per scrivere, ai miei tempi. Se la cucina è cambiata, e lo era già nella gioventù del protagonista, il modo di insegnarla continua a discostarsi dalla realtà.

Come Batman di ritorno dal tempio della Setta delle Ombre, Bourdain è pronto a prendere il mondo per la gola, a conquistarlo a suon di piatti e preparazioni e a tenere testa al bestiario che popola le cucine d’America.

Le brigate di cucina: tribù marinettiane plasmate da un’educazione siberiana che le ha rese sregolate, sognatrici, selvagge, fedeli a regole e lingue proprie, indecifrabili e incomprensibili dall’esterno. Una ciurma, come spesso l’autore e protagonista la definisce, di “criminali di alto livello, veri atleti sessuali […], banditi di strada, bucanieri e tagliagole”: questa è l’immagine spesso evocata anche dai professori-chef che ho incontrato nel mio percorso alberghiero la cui missione, prima di insegnare come non rovinare un filetto di manzo, è stata quella di distruggere questo stereotipo. Forse ci sono riusciti, loro come molti altri sul pianeta, migliorando la figura e la reputazione della categoria: a stravolgerla nel segno opposto ci ha pensato la spettacolarizzazione della cucina, il modello masterchef secondo il quale passione e capacità di cucinare un piatto, uno solo, in 2 ore, siano sufficienti per lavorare in una cucina, tutti i giorni, con centinaia di coperti.

Bourdain classifica i cuochi in tre categorie: i mercenari (chi lavora bene e lo fa per soldi), gli esiliati (chi non potrebbe fare nessun altro lavoro) e gli artisti (quelli con manie di protagonismo e grandezza). Nell’immaginario collettivo prevale la terza immagine, si vuole credere che la seconda sia estinta (avete mai sbirciato da una finestra di un ristorante?) e si ripudia la prima perché mossa da intenti poco nobili. Di quale abbiamo effettivamente bisogno?

Kitchen confidential. Avventure gastronomiche a New York ha il pregio della schiettezza, è viscerale come il piacere o il disprezzo del cibo, genuino come uno scherzo volgare pronunciato da una bocca a cui vogliamo bene. È uno schiaffo in faccia al cliente, che non ha sempre ragione, convinto che la regola aurea location, servizio, menù e conto interessi a qualcuno e legittimato a giudicare aspetti di un mondo che ignora. Insomma è un libro che può confermare o ribaltare (ho finito le citazioni borghesi, promesso) ciò che immaginiamo quando abbiamo le gambe sotto a un tavolo di una sala di ristorante rumorosa: un miracolo faticoso, da assaporare nelle sue note dolci e in quelle amare, racchiuso nel piatto che abbiamo sotto gli occhi.

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