“Sette giorni, non uno di più. Poi ti riporterò indietro. Stesso giorno, stessa ora”: un’unica e grande premessa, come nei migliori romanzi di Saramago, che dopo neanche venti pagine cala il lettore nel cuore de Il primo giorno della mia vita. In questo romanzo, edito da Einaudi nel 2018, Paolo Genovese anticipa i toni e le riflessioni di Supereroi (Einaudi 2020), tessendo una trama all’insegna della ricerca della felicità, che spesso va di pari passo con dolori mai affrontati. New York è una metropoli in continuo movimento, in ossequio a uno dei suoi soprannomi: The City That Never Sleeps. È qui che vivono i protagonisti della storia: un coach motivazionale, un’agente di polizia, un’ex ginnasta sulla sedia a rotelle, un ragazzino icona delle pubblicità.

Non si conoscono; le probabilità che le loro esistenze si intersechino sfiorano lo zero, eppure c’è qualcosa che li accomuna. Forme diverse di sofferenza hanno portato le quattro coscienze a pensare che l’unico rimedio a tanto dolore sia il suicidio: qualcuno decide di buttarsi da un ponte, un altro di spararsi; chi di gettarsi dalla terrazza di un albergo e chi, essendo diabetico, di farla finita mangiando decine di donuts. Nell’attimo fatale, ecco apparire a ciascuno un uomo misterioso in giacca e cravatta: vuole dar loro del tempo in più per riflettere, per mostrarli come sarà il mondo senza di loro. Nasce così un’insolita armata Brancaleone, invisibile alla gente e pronta a darsi una seconda possibilità.

Durante i sette giorni di limbo tra la vita e la morte, i quattro si schiudono lentamente, si raccontano e mostrano le proprie fragilità. Grazie all’uomo misterioso, che come un moderno Spirito del Natale passato-presente-futuro li fa viaggiare sulla linea del tempo, hanno la possibilità di rivivere ricordi dolorosi, assistere ai ritrovamenti dei loro corpi , vedere i propri cari ai funerali. Lo scopo è portarli a dubitare; le loro menti si intasano di interrogativi: “perché noi? Ci ha scelto o non c’era nessun altro? Chi è?”. Ma soprattutto: “che cosa accade se ci ripensiamo?”.             Con il procedere della storia, il lettore ha la possibilità di empatizzare con il gruppo, può entrare nelle loro vite e comprendere la loro scelta, senza giudizi. Non giustificarli, solamente comprenderli. E così anche chi legge riconosce nel loro gesto l’unica via d’uscita, l’unica forma di libertà a diverse forme di oppressione: chi schiavo della popolarità, chi del proprio corpo “rotto”, chi di un dolore passato, chi delle troppe responsabilità.

La cura al dolore risiede proprio nel gruppo che hanno creato: relazioni autentiche tra persone che, condividendo la stessa sorte, sanno ascoltare e si sentono ascoltate. Solo così capiscono ciò che si perderanno se decideranno di non cambiare il loro destino: la possibilità di essere nuovamente felici. Questo l’aspetto che permetterà di stravolgere buona parte delle loro vite. Non tutte però, perché “la vita è imprevedibile, neanche vivendola due volte puoi essere sicuro di come andrà a finire”.

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