Giù nel Sud sul treno/ C’è un vagone per Jim Crow/ Sull’autobus ci sediamo in fondo/ Ma sulla giostra non c’è mica/«In fondo»!/ Dov’è il cavallo/ Per un bambino che è nero?”. Langston Hughes è stato, con poesie come La giostra, il bardo capace di narrare le condizioni della comunità afroamericana del suo tempo. Oggi c’è ancora bisogno di opere di denuncia come queste? Chi ha raccolto la sua eredità? La risposta è sì purtroppo, e Il ritmo di Harlem è la prova che Colson Whitehead sia il degno erede di questo grande poeta.

All’inizio degli anni Sessanta, in tutti gli Stati Uniti risuonano le voci dei movimenti per i diritti civili degli afroamericani come SCLC, CORE e NAACP, che invocano la piena parità di diritti per i neri d’America. Marce, scontri e violenza non mancano; la lotta tra black power e white powerconsuma la popolazione, dal nord delle grandi città fino alle periferie del profondo sud. È in questo clima che scorrono le vite nel cuore nero della Grande Mela: il quartiere di Harlem.

Ray Carney è il proprietario di un negozio di mobili. Una moglie, due figli piccoli e un passato ingombrante da cui cerca di emanciparsi: figlio di un delinquente, fin da bambino respira la miseria del suo quartiere, portatrice di malavita e violenza. Tenta di combattere la genetica, ma i guai sembrano sempre bussare fastidiosamente alla sua porta. Prima una rapina ai danni di un malavitoso lo vedono coinvolto come ricettatore; poi architetto della vendetta verso un ricco banchiere truffatore di povera gente; infine nuovamente ha a che fare con il furto di gioielli, questa volta appartenenti a una ricca famiglia di Manhattan. Vive con angoscia questa doppia vita, tenuta nascosta alla famiglia, tentando in tutti i modi di non spaccarsi in due, attento a non essere “più disonesto in una direzione e più perbene nell’altra”: rivendendo merce rubata può guadagnare più soldi per la sua famiglia, assicurando così un futuro diverso ai figli. Vale il rischio di metterli in pericolo? È questo l’interrogativo che corrode Carney ogni volta che ha a che fare con l’illegalità.

Come il protagonista, tutta Harlem si sveglia ogni giorno con la consapevolezza che dovrà combattere per sopravvivere: la legge del più forte è l’arte dell’arrangiarsi sono radicati in tutte le persone che Carney incontra. Il picchiatore Pepper, i ladro di pietre preziose Freddie, il gioielliere ricettatore Moskowitz, Arthur lo scassinatore, sono solo alcune rappresentazioni di questo codice della strada; persino le autorità seguono leggi parallele: la “sacra circolazione delle bustarelle. […] Una bustarella è una bustarella. Sovverti l’ordine e tutto il sistema salta”. Tra i mattoni dei caseggiati si cova però il desiderio silenzioso di cambiamento; un grido di giustizia sociale si alza da dietro le serrande: un quartiere intero chiede di essere visto e considerato non più solo come un ricettacolo di delinquenti.

Colson Whitehead è riuscito a raccontare le difficoltà di una grande fetta di popolazione americana. Tra il tempo del narratore e le vicende narrate vi è uno scarto di sessant’anni, eppure non si fatica a sovrapporre alcuni aspetti narrativi con altri reali. Le sommosse raccontate in seguito all’uccisione di un giovane afroamericano da parte della polizia riaccendono immediatamente il ricordo delle proteste del maggio 2020 in seguito all’analogo assassinio di George Floyd; i movimenti civili citati nel libro rimandano al lavoro che svolge oggi Black Lives Matter; i rimandi al fenomeno del colorismo, una forma di metarazzismo che ancora oggi non si è estinto.

Il ritmo di Harlem è in continuità con la produzione dell’autore newyorkese, che in ogni sua opera riesce a restituire al lettore una fotografia degli Stati Uniti purtroppo senza tempo, in cui il moderno colore si mescola al passato bianco e nero, sintomo che i problemi persistono nonostante il passare dei decenni. Forse sarà un segnale di speranza quando Whitehead scriverà di altro; forse sarà cambiato realmente qualcosa allora.