Il viaggio è una delle infinite cose incerte della vita: sappiamo chi siamo quando ci lasciamo casa alle spalle ma non sappiamo come saremo quando torneremo; troppe e incontrollabili le variabili in gioco. Tutti diventiamo prima o poi viator: molti per lavoro, tanti per piacere, troppi per necessità. Può essere però più di un mero spostamento da un punto A ad un punto B: può diventare un mezzo di analisi introspettiva, durante il quale si prova a rispondere alle fatidiche domande “chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?”. Nicola Lecca ne Il treno di cristallo racconta questo tipo di viaggio interiore.

In una piccola cittadina del Kent, Aaron Ancic vive una vita monotona e grigia: un lavoro precario, pochi amici, una relazione virtuale con una ragazza restìa a incontrarlo. A complicare ulteriormente il quadro, il rapporto con la madre: una ragazza-madre fuggita dalla Croazia, diventata iperprotettiva e ammalata di depressione. Tutto ciò che Aaron vorrebbe è un po’ di colore e sollievo nella sua esistenza; sogna un’esistenza a colori, qualcosa che stravolga la monotonia e che faccia ordine nel suo passato. Un’ombra infatti circonda la figura del padre, mai conosciuto e di cui la madre parla raramente.

Quando sembra destinato a rimanere intrappolato in questo labirinto, riceve un segnale di cambiamento che riaccende la speranza. Una lettera, il mittente è un notaio croato: lo invita a Zagabria per conoscere le ultime volontà di suo padre. Ha posto un’unica condizione: che il figlio viaggi in treno per arrivare in Croazia. Quasi come se sapesse che non è mai uscito dall’Inghilterra per colpa della madre apprensiva; come se volesse, dall’aldilà, educare il figlio alla vita tramite l’esperienza del viaggio. All’insaputa della madre, decide di partire per quell’Odissea su rotaie e di andare a prendere la verità contenuta in quel testamento, celata per troppo tempo.

Inizia così un InterRail Londra-Zagabria, che lo catapulta fuori dalla sua confort zone del Kent alla ricerca della verità riguardo la sua nascita. Come il giovane Dorian Grey dell’omonimo romanzo, si scontra con la realtà dura e cruda del mondo, conoscendo per la prima volta i suoi vizi (a differenza del personaggio di Wilde però, riuscirà a starne alla larga). Sperimenta il vagare da solo e senza soldi per gli ostelli delle capitali europee; come un moderno abitante della Roulettenburg di Dostoevskij, prova l’ebrezza del rien ne va plus a Praga. Conosce le pasticche di Substitol che rendono schiavi molti ragazzi austriaci; prova a lasciarsi andare in un bordello di Amburgo, senza grande successo.

Aaron matura nel viaggio, cambia, anche grazie a chi incontra sul suo cammino. Come Golan, che a Praga lo aiuta senza aspettarsi nulla in cambio (“Perché mi aiuti? […] Per condividere. Per non sprecare quanto ho imparato”); come i ragazzi francesi sul treno per Amburgo che gli offrono un posto nella camera del loro ostello. Come Colette, la ragazza francese incontrata a Lubiana che ascolta la sua storia e gli offre da bere quando non ha soldi. Oppure la suora sul treno per Bratislava, che lo rincuora dopo la rottura della sua relazione online (“la suora si alza, accarezza Aaron sulla fronte, e lui pensa che una madre così gli sarebbe piaciuta”).
Il treno di cristallo è a tutti gli effetti un romanzo di formazione moderno, capace di fotografare il cambiamento radicale di un adolescente che si è messo in viaggio, fisicamente e interiormente. Come dopo un viaggio, così dopo la lettura di questo libro, si torna a casa sicuramente arricchiti di nuove esperienze; mutati senza ombra di dubbio.