L’arte della sottrazione, nel narrare una storia, non è da intendersi come sinonimo di superficialità. Se tra le espressioni artistiche si eleva il romanzo a paladino della minuziosità descrittiva, perché potenzialmente infinito (dietro l’angolo il rischio di smarrirsi in labirinti di aggettivi e avverbi), agli antipodi si colloca la fotografia: un formato per definizione finito, che seleziona una porzione di realtà da rappresentare, creando dei confini. Eppure tutto si può dire del lavoro di Letizia Battaglia tranne che distorca la realtà: una vita spesa per rivelare la verità di un territorio difficile come la Palermo del secondo Novecento, raccontata, assieme a Sabrina Pisu, in Mi prendo il mondo ovunque sia.

Leggendo questa biografia, sembra che la battaglia (nomen omen, per usare pomposi latinismi) per la libertà della sua terra abbia origine in un’esperienza personale di oppressione. Nasce a Palermo in una famiglia numerosa, in cui è centrale la figura del padre-padrone, ahimè comune negli anni Trenta: un uomo geloso dei primi amori della figlia, che non le permette di continuare gli studi perché “che studi a fare, tanto un giorno ti sposi, non ti serve a niente”. Per porre fine a questo, pensa che il matrimonio sia la soluzione per essere libera. Un copione da storia all’italiana del grande Sud: a sedici anni, dopo la fuitina, il matrimonio; a diciassette la prima figlia. Variano gli addendi ma il risultato non cambia: il marito si sostituisce al padre; nel suo futuro “niente di più che essere una moglie e una madre”.

L’oppressione diventa insostenibile, a nulla serve allontanarsi dal marito perché il senso di angoscia e fallimento la raggiungono sempre. Proprio quando ha toccato il fondo, il primo gesto rivoluzionario (stiamo parlando dell’Italia degli anni Sessanta): si rivolge a uno psicologo, cosa insolita poiché “le donne accettavano tutto, subivano e non ritenevano di avere la possibilità di cambiare. Le pressioni sociali erano così forti da annichilirle”. Inizia a sperimentare la libertà, capisce che altri modelli d’amore esistono e che l’indipendenza è un valore fondamentale: con la separazione dal marito, comincia la rinascita di Letizia Battaglia.

Vuole vivere di parole, sogno che ha fin da bambina, così approda alla redazione de L’Ora, storico giornale di Palermo: un ambiente di sinistra che però non divenne mai strumento di propaganda per non inquinare i fatti reali. Come un illustre collaboratore del quotidiano, Leonardo Sciascia, insegnò: “il racconto non è soltanto il racconto del fatto, ma è soprattutto il racconto del contesto”; se si hanno interessi politici, contesto e racconto possono essere distorti. Un “giornale di frontiera” che ha sempre parlato di mafia, senza paura di denunciarne i crimini o mostrare il sangue: un approccio rivoluzionario, visto che fino agli anni Sessanta i mezzi di informazione minimizzarono il fenomeno mafioso. Letizia, con il suo passato di oppressione, non poteva trovare contesto editoriale più stimolante in cui iniziare a muovere i primi passi.

Con una vecchia Leica al collo, comincia a scrivere il romanzo fotografico dell’Italia: prima la Palermo povera, poi la Milano bohémien dei circoli intellettuali in cui incontrò Dario Fo, Franca Rame, Pier Paolo Pasolini; poi il ritorno a Palermo come direttrice del servizio fotografico. Un amore viscerale per la città natale, a cui la lega “un sentimento di rabbia mista a dolcissima disperazione”. Così ne parla in una delle pagine più poetiche del libro:

“Palermo è come una bambina, che vuole crescere. diventare grande, […] sogna di diventare una persona felice. È una città piena di cose, belle e brutte. Come lo è un amore. È un elemento barocco su un muro con sotto accatastata la spazzatura, […] una finestrina con la sua tendina rotta e la sua vita difficile dietro. La mia Palermo puzza splendidamente.”

Del capoluogo siciliano conoscerà anche le tinte vermiglie: per troppi anni è stata “prigioniera di una cronaca che non ci lasciava tregua”, sempre in prima linea per raccontare la guerra di mafia che squarciava la città e le esistenze che la abitavano. Non è mai riuscita a raccontare con distacco i fatti di quegli anni: ricorda la confusione degl’istanti dopo l’omicidio di Piersanti Mattarella (storica la foto del futuro Presidente della Repubblica che tiene tra le braccia il corpo del fratello); l’odore del sangue nell’abitacolo dell’auto in cui fu ucciso il giudice Terranova; la paura degli occhi feroci di Leoluca Bagarella in manette. Una fotografia partigiana, tutta istinto e poca tecnica, che costa sì sofferenza (“I morti ammazzati dalla mafia, i volti onesti di chi cercava di fare giustizia, […] mi sono sempre chiesta come facevo io a resistere”), ma che è mossa dal desiderio di cambiamento sociale. La paura più grande, invece, che sue immagini si depotenzino, che non alimentino più una rabbia sana, alla base della rivoluzione culturale che auspica continui nella sua città.

Mi prendo il mondo ovunque sia è una lettura che permette, grazie al magistrale lavoro d’analisi della giornalista Sabrina Pisu, di avere una fotografia (metafora migliore non può esistere) di una delle stagioni più drammatiche d’Italia. Ha fatto chiarezza su eventi giudiziari raccontati in modo poco limpido (l’assoluzione-prescrizione di Andreotti) e ha intervistato chi ha incarnato il cambiamento di Palermo (nell’ultimo capitolo, un’interessante intervista al sindaco Leoluca Orlando).Questo è soprattutto un romanzo che permette al lettore di conoscere il percorso faticoso di emancipazione di Letizia Battaglia: una rivoluzionaria determinata, mossa da un’idea diversa di Paese, da raggiungere con l’impegno civico e politico. Forse è meglio dire una rivoluzionaria gentile: una donna che crede ancora nell’amore, nonostante il suo passato, come alimento di libertà e non come forma di costrizione; attenta agli ultimi; convinta che “fare del bello per la città sia già fare antimafia. In sostanza: un romanzo- ritratto, intimo e completo, di Letizia Battaglia.