Erano anni che cercavo un libro ambientato durante gli anni dei moti rivoluzionari irlandesi, quelli che portarono all’indipendenza dal Regno Unito. Un’altra mia ossessione, dopo il pluricitato Jack London, è proprio l’isola Smeralda e la sua storia di ribellione e resistenza: Il nostro giorno verrà di Edith Joyce, edito da Red Star Press,ha soddisfatto questa ricerca, lasciandomi alla fine con una sensazione strana, un ricordo di letture passate: perché non c’è un secondo capitolo di questa storia?

Erin O’Brien vive una situazione familiare complessa, specchio del panorama geopolitico della nazione: padre filomonarchico e protestante, funzionario della Corona a Dublino, che si ostina a chiamarla Vittoria, come la gloriosa regina; madre irlandese e cattolica, che impone il nome Erin (Irlanda, nomen omen) e la educa alla libertà e all’emancipazione. Infine James e Stephen, suoi fratelli maggiori, concreta anticipazione della guerra fratricida che si svolgerà negli anni a venire: uno pronto a morire per la Union Jack; l’altro per il Tricolore. In mezzo a questo caos c’è una giovane ragazza, che cerca il suo posto nel mondo nonostante i tumulti che la circondano.

La gioventù che vive Erin è caratterizzata dal più bruto colonialismo britannico: soprusi, e violenze, sono all’ordine del giorno; significativa è l’uccisione di un giovane orologiaio, colpevole di non aver servito per primi due soldati inglesi. Fotogrammi de Il vento che accarezza l’erba (Ken Loach, 2006) affiorano dalle pagine: sembra di assistere al pestaggio di Micheál Ó Súilleabháin, reo di aver risposto in gaelico a una domanda di un soldato. Cultura e lingua sono denigrate, schiacciate dalla logica del progresso e dell’industria dell’Impero: Dublino appare sempre grigia e prigioniera dei fumi vomitati dalle ciminiere; svuotata di qualsiasi colore e tradizione; spenta. Eppure, sotto la cenere, le braci della rivolta attendono il momento giusto per riaccendersi: anche Erin aspetta quel momento.

Il nostro giorno verrà è infatti il racconto di una doppia ribellione: quella politica e quella interiore della protagonista. Il rapporto con l’ideale repubblicano è altalenante, volubile al cambiamento emotivo-caratteriale di Erin. In un primo momento appare conflittuale: è la causa che porterà i suoi fratelli a odiarsi e allontanarsi; la ragione per cui si è sempre trovata tra due fuochi e nella condizione di doversi schierare, anche quando non avrebbe voluto.

“Non avevo voglia di sentir parlare di ideali. Era per colpa loro se mio fratello era quasi morto. […] Io volevo solo vivere tranquilla, senza che la gente venisse a bussare per portarmi notizie di morte. […] In quel momento, avrei preferito sventolare la bandiera inglese a Talbot Street, dritta in faccia al repubblicano dai capelli rossi, tornare a casa e vedere mio fratello sorridere piuttosto che accettare l’idea che avrei potuto perderlo per sempre”.

Abbandonata la famiglia ormai frammentata, Erin sbarca nel mondo degli adulti, mossa da un desiderio di sangue travestito da patriottismo: vorrebbe combattere, uccidere per la causa irlandese, ma non le è concesso. La prima motivazione riguarda l’essere donna: tocca con mano la subalternità agli uomini, in un’epoca in cui “le donne non sanno parlare di politica. Le donne costruiscono le loro opinioni in base a quelle dei loro mariti, dei loro padri, dei loro fratelli. […] Nessuno chiede mai l’opinione di una donna riguardo la politica. Nessuno desidera davvero conoscerla”. Persino nel Cumann na mBan (movimento rivoluzionario femminile) non è concesso un ruolo attivo nella lotta. Solo un ragazzo, Seàn Colbert, sembra ascoltare i suoi pensieri, le sue motivazioni, eppure anche lui non le insegnerà a sparare: “chiunque abbia dentro di sé una ferita grossa come la tua non debba sparare”. Questo è il secondo motivo per cui non le è concesso imbracciare le armi. Con l’avvicinarsi del 24 aprile 1916, giorno dell’Éirí Amach na Cásca, della rivolta di Pasqua, farà pace con sé stessa e capirà per cosa combattere: per un paese libero, per l’egualitarismo e per un amore appena sbocciato.

Se bisogna trovare una nota negativa, sicuramente dettata dalla passione per l’argomento, sta nella condensazione di avvenimenti verso il finale: in una manciata di pagine si passa dai moti del 1916 al General Post Office di Dublino, alla guerra d’indipendenza del 1919-1921. Un secondo volume, forse, avrebbe raccontato meglio la seconda parentesi rivoluzionaria del paese, regalando al lettore, inoltre,una Erin matura e pienamente emancipata. Il nostro giorno verrà rimane comunque un romanzo avvincente, da cui impetuosamente traspare il desiderio di riscatto di una nazione e di una giovane donna. Inutile dire che ha riacceso la mia mai spenta Irlandafilia.