Come i fiocchi di neve, anche per le letture di un libro vale il teorema per il quale non ne esiste una identica all’altra: partecipare a un gruppo di lettura è la prova inconfutabile di questa regola aurea. Ciò che proverò a fare nei prossimi paragrafi sarà riassumere il punto di vista dei lettori che hanno partecipato al quinto incontro del gruppo di lettura di Romanzoapranzo.
Le proprietà medicinali della letteratura sono tante, tra le più potenti però spiccano la possibilità salgariana di osservare mondi altri senza dover preparare i bagagli, e il potere consolatorio e salvifico lì dove la propria storia e il proprio presente non sono così facili da affrontare. Rimanendo in ambito medico, Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi è un farmaco sperimentale, non riuscito appieno: sicuramente lascia qualcosa al lettore, ma quel qualcosa è incompiuto, diluito in aspetti della narrazione che possono attrarre meno rispetto al contesto, quello dell’Iran della rivoluzione islamica, in cui è stato scritto.

Azar Nafisi, autrice e protagonista del libro, è professoressa di letteratura inglese all’università Allameh Tabatabai di Teheran; la sua carriera universitaria inizia in un periodo di sconvolgimenti per l’Iran: a fine anni Settanta, la rivoluzione khomeinista destituì lo scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi, instaurando così una repubblica islamica e connotata da un forte antioccidentalismo. La professoressa Nafisi incarna tutto ciò che la neonata repubblica identifica come nemico o immorale: è una donna libera, figlia di dissidenti iraniani, che ha studiato letteratura in Europa e negli Stati Uniti. In un contesto che vuole plasmare donne-angeli del focolare, subordinate a mariti e padri, pure e immuni da ogni stimolo che non sia moralmente edificante, la protagonista vuole creare uno spazio di autenticità e libertà per le sue studentesse: un gruppo di lettura, nel quale potersi esprimere liberamente, riflettendo su alcuni classici della letteratura occidentale.

Lolita, Gatsby, James, Austen: i capitoli del romanzo seguono gli autori e le opere analizzate in questi seminari clandestini; proprio la struttura del romanzo e il ruolo centrale della letteratura, sono allo stesso tempo punto di forza e di debolezza di Leggere Lolita a Teheran. Le storie delle studentesse fanno da cornice all’analisi delle singole opere e del loro potere salvifico ed evasivo; purtroppo in alcuni momenti l’equilibrio tra le parti si è rotto, dando maggior spazio alla dimensione saggistica del libro e meno al contesto iraniano, alle difficoltà che nel quotidiano una donna della repubblica islamica può incontrare. É vero, l’autrice è una docente universitaria e per sua stessa ammissione ha “una mentalità troppo accademica” (“ho scritto un numero tale di saggi e articoli che non sono più capace di trasformare le mie esperienze in racconti senza mettermi a pontificare”), questo non la giustifica in alcuni passaggi, dove si assiste a un appiattimento narrativo delle ragazze e a un’esaltazione dei personaggi del romanzo americano, raccontati alle volte come unica alternativa occidentale a qualsiasi altro modello.

Potere salvifico della letteratura a parte, concentrandosi sulle protagoniste del romanzo di Azar Nafisi, emergono due tematiche importanti: quella della violenza quotidiana e della scelta. Leggere Lolita a Teheran non è un libro violento, o meglio, dalle sue pagine non sgorga continuamente sangue; si tratta più di micro violenza, impartita ogni giorno, con privazioni inimmaginabili e assurde per chi di tante piccole libertà gode ogni giorno, senza accorgersene. Essere ripresi per aver mangiato una mela in maniera troppo provocante, o per aver applaudito a un concerto; essere costretti ad annullare ogni colore in favore del nero, coprire corpi e pensieri, senza la possibilità di esprimersi autenticamente, di vedersi con i propri occhi ma solo attraverso l’idea che gli altri, uomini per lo più, si sono fatti di noi. Una ricetta d’annullamento spesso efficace, che porta le ragazze a ricercare continuamente un punto d’appoggio (che sia una docente illuminata o, nei peggiori dei casi, un uomo da cui dipendere), a sognare un cambiamento che però non sanno come attuare. Qui si innesta il tema della scelta: non si tratta di avere coraggio di restare o di partire, ma di averne la possibilità. L’autrice decide di partire perché ha i mezzi per lasciare il paese, alcune allieve proveranno a fuggire, altre saranno costrette a rimanere.

Al fuggire e al restare, si affianca un’altra scelta: quella di sparire. Il mago, confidente della protagonista e unico personaggio maschile positivo in tutto il libro, ha preso questa decisione, scomparendo dalla repubblica islamica, ma anche dalla vita in generale: “non sono membro di questo club, ma sto anche pagando a peso d’oro il mio isolamento. Non rischio nulla, ma nemmeno posso vincere qualcosa. A ben guardare, io non esisto affatto”. Un personaggio poco definito, misterioso, al punto che ci si chiede se veramente sia esistito o se sia la coscienza della professoressa Nafasi, il quale pone il lettore di fronte a un interrogativo: al suo posto, che cosa avrei fatto? Per sopravvivenza personale, sarei sparito o avrei combattuto?
Leggere Lolita a Teheran è una lettura che al contempo lascia il segno e la bocca asciutta; dall’altissimo potenziale di denuncia sociale, che però si è arroccato su se stesso, sulla critica letteraria, a tratti un po’ troppo semplificata, lì dove ha presentato il modello occidentale come l’unica alternativa possibile.
Autodeclassato molto volentieri a braccio scrivente, ringrazio le menti di questi paragrafi: Alessandro, Carlotta, Davide, Federico, Gaia, Gianluca, Serena, Silvana.



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