Come per la lettura, il rapporto con il cibo è un elemento che plasma la persona nel profondo. È legato biologicamente al proprio corpo, culturalmente al luogo in cui si vive e si è vissuto, psicologicamente agli alimenti che si incontrano nelle proprie esperienze di vita. Sono dunque mangio, sono perché mangio in quel modo, sono perché mi hanno dato da mangiare in un certo modo. Il cibo è carico di simboli e significati, oggi un po’ sbiaditi dal modo disumano e asettico a cui siamo spesso abituati a pensarlo: La ricetta dell’incanto di Francesco Boer e Fabio Bortesi è il piatto della nonna in un mondo gastronomico fatto di prodotti standardizzati; baluardo di resistenza che prova a ridare sapore e poesia a un piacere che è diventato troppo sciapo.

Non ho percepito, in tutti i capitoli del saggio, nessun intento moralizzante da parte degli autori, neanche in quelli in cui etica e alimentazione dialogano e si scontrano (nei prossimi paragrafi mi spiegherò meglio). Non è un trattato che salta alla gola della produzione industriale, miope ai benefici in termini di riduzione di fatica e di risparmio di tempo che il progresso tecnologico in campo agroalimentare ha apportato: come anche le penne di La ricetta dell’incanto sottolineano, “non è la scienza, il nemico della poesia”. Ciò che si vuole fare è riportare un po’ di sacralità tra i cinque sensi quando si è di fronte a un cibo, che può avvenire solo se si rallenta nel quotidiano, tra una schiscetta e una lista della spesa.
Avete presente quella scena in Ratatouille in cui Remy assapora fragole e formaggio in un tripudio di colori e suoni? Sembrerà infantile e stupido, ma è un’immagine che mi è tornata in mente in molte pagine di questo libro. Non tanto l’accostamento di cibo, quanto la sospensione del tempo di quel fermo immagine: su uno sfondo nero in cui tutto si ferma; a rimanere è solo il cibo e colui che se ne ciba che, a ogni morso, ha la possibilità di accedere alla memoria di quell’alimento, alla sua storia, al suo mito.

Nell’attimo di un boccone sfugge la storia dell’alimento; nell’abbondanza dei pranzi i possibili legami tra prodotti della terra si perdono. Eppure, esiste un fil rouge tra i protagonisti de La ricetta dell’incanto che ha a che fare con l’essenza stessa del cibo. Vi è un binomio ricorrente tra vita e morte in molti alimenti: la violenza mortale della spiga trebbiata e del chicco sbriciolato sono seguite dal miracolo della lievitazione, vero e proprio processo di creazione della vita; così anche l’acino d’uva falciato e spremuto resuscita nel processo di vinificazione. L’oliva frantumata dona un liquido lucente e vitale; l’uovo è una vita mancata che si trasforma in nutrimento, così come i frutti strappati dalla pianta madre o il miele rubato alle api che si trasforma in idromele. Doni più che prodotti: la rilettura del cibo sotto questa lente semantica, innovativa visto che abbiamo scordato il nostro antico passato da raccoglitori, darebbe nuova dignità a un aspetto della quotidianità a cui siamo abituati a pensare quasi come a un atto meccanico e fastidioso da dover compiere.

La dinamica di prodotto implica che ci sia una parte che detiene anche l’identità dell’alimento, mentre in quella del dono la proprietà simbolica e intellettuale del cibo è ad appannaggio di tutti: ne segue che si può plasmare l’idea di un cibo, che in qualche misura può diventare strumento politico. “Esistono un ‘noi’ e una galassia di ‘altri’; e che uno dei criteri che distingue questi ‘altri’ sta proprio nelle usanze alimentari”: come cittadini di un piccolo paese, poi di una regione, poi di una macroarea e solo infine come italiani, siamo forse i campioni a creare un esercito di “altri” che alle volte vivono a pochi chilometri da noi. Eppure molti dei simboli che identificano “noi” non hanno fatto sempre parte della nostra tradizione: la tradizione infatti è un’innovazione che si è sedimentata, che abbiamo digerito come società e assimilato quale componente culturale propria. Ogni cambiamento è papabile a diventare tradizione: che sia il biologico, il vegetarianesimo, il consumo di insetti. Servirà tempo, ma sono sicuro che tra cento anni riusciremo ad arrogarci il diritto di fare del Acheta domesticus (grillo domestico) una DOCG, come con il pomodoro (venuto dall’America, tra l’altro).

Francesco Boer e Fabio Bortesi sottolineano che il cibo è simbolo e il simbolo un legame: osservando però l’intolleranza ai legami che la società pare aver sviluppato (in parte ne parlo anche in Eros in agonia di Byung-Chul Han), non mi stupisce la perdita di legami simbolici con il cibo. La ricetta dell’incanto appare in questo senso una lettura rivoluzionaria e controcorrente, un modo per ricucire i rapporti con ciò che ignoriamo possa celarsi nel piatto in cui mangiamo.



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