Il cinema e la letteratura hanno plasmato l’immaginario collettivo dell’America selvaggia: carovane di coloni in cerca di fortuna, pistoleri dal grilletto facile, scontri tra giubbe blu e “pellerossa”. La rappresentazione del nativo americano è stata fortemente polarizzata, mitizzato come buon selvaggio o surclassato a individuo inferiore e feroce, da civilizzare a tutti i costi. La cultura nativa ha subìto sempre la mediazione di registi, scrittori e studiosi bianchi: fino al 1969, quando Navarre Scott Momaday vinse il premio Pulitzer con Casa fatta di alba (primo e ad oggi unico nativo a cui è stato riconosciuto tale prestigio). Attraverso il suo romanzo, ha mostrato per la prima volta il punto di vista di chi fino a quel momento non aveva avuto voce.

Il secondo conflitto mondiale ha stravolto l’esistenza di milioni di giovani uomini; neanche Abel, nativo Kiowa del New Mexico, è scampato al boato dei mortai e alla loro fame di morte. Tornato a casa, la quiete dell’altopiano e il suo lento ritmo non sembrano attecchire nel suo animo inquieto. Cerca rifugio nell’alcol e nel lavoro impossibile da trovare; per scappare dai suoi demoni, oltre che dall’accusa di omicidio ai danni di un bianco, cerca fortuna a Los Angeles. Nessun posto nel mondo sembra però dargli pace: non sente di appartenere più alla sua gente ma quando è lontano dal suo pueblo ne è attratto irrimediabilmente.

Abel non racconta le sue vicende, rari sono i dialoghi in cui è coinvolto: la sua bocca sembra cucita (forse un trauma post-bellico), ricorrono spesso riferimenti al suo silenzio e alla mancanza di parole. Lo conosciamo e seguiamo per mediazione di altri personaggi, centrali nella sua vita, in un metaracconto molto articolato. Abel è nei pensieri del nonno Francisco, che tanto ha atteso il suo ritorno al villaggio; nell’amore di Milly, assistente sociale favorevole all’integrazione degl’indiani; nei sermoni sincretistici del sacerdote del Sole J.B.B. Tosamah. Proprio quest’ultima figura rappresenta al meglio la fusione tra due culture: il Vangelo convive accanto al peyotismo, tradizione e “progresso bianco” sembrano fondersi bene. Eppure i nativi vivevano (o forse meglio vivono?) una doppia discriminazione, in un limbo senza soluzione: coloro che vogliono uscire dalla riserva e inserirsi nella società americana, vengono emarginati, etichettati col dispregiativo di lunghicapelli; coloro che vogliono rimanere ancorati alle proprie origini sono alle volte costretti ad integrarsi.

Casa di alba non è solo narrazione di eventi, è soprattutto contemplazione di spazi: Momaday ha regalato intime descrizioni di paesaggi, soffermandosi su piccoli dettagli e trascrivendo ogni percezione sensoriale sulla pagina. Così dipinge il canyon sferzato dalla pioggia:
Non vide che i lampi e l’orribile inclinazione grigia del diluvio, pallida e impenetrabile, che andava in frantumi e lacerava la sua vista come dolore. La prima, veloce onda di tempesta passò quasi senza diminuzione del rumore; le gronde si riempirono e traboccarono, e le spesse corde d’acqua penzolavano tra la malvarosa e la menta, e consumavano la terra alle loro radici; lo smalto d’acqua piovana saliva tra i sassi bianchi e scorreva fasce sulla strada; e di là dalla strada il rombo e il fervore del fiume.
Oppure una battuta di caccia:
La prima ad arrivare era una cerva mulo, piccola e dal pelo lungo, ignara ma piena di fuga latente. Alzò il fucile e gli parve di non far rumore, ma la testa della cerva si sollevò di scatto e il suo corpo s’irrigidì. Allora si levò in piedi, e la cerva schizzò via. Lo scoppio del fucile risuonò fra gli alberi, e corse dove sul suolo non c’erano che le due piccole impronte, nel punto in cui la cerva aveva spiccato il balzo attraverso l’intrico dei rami.

Molte pagine del romanzo poi assumono un tono etnografico, quasi da studio antropologico sulle usanze e i riti dei Kiowa. Tanti gli studiosi che hanno raccolto miti e cosmogonie dei nativi, sempre però raccontati attraverso gli occhi razionali e distaccati dell’uomo occidentale bianco. Momaday invece riesce a trasportare il lettore attorno al fuoco delle cerimonie, lo coinvolge appieno nel rituale del peyote e nella caccia all’aquila, passando per la storia dell’avvento di Tai-me. Particolare poi la leggenda della torre del diavolo: sette sorelle, inseguite dal fratello trasformato in orso, scapparono su un albero parlante: “le fece arrampicare su di sé, e mentre loro salivano, l’albero cominciò a crescere. L’orso si avvicinò per ucciderle, ma non poteva raggiungerle. […] Le sette sorelle furono trasportate in cielo e così divennero le stelle dell’Orsa Maggiore”.

Il sacerdote del Sole Tosamah è convinto che l’uomo bianco “parla del Verbo. Ne parla da ogni verso. Vi getta sopra sillabe, prefissi e suffissi, e trattini e accenti. Somma e divide e moltiplica il Verbo. E nel farlo sottrae la Verità”. Troppe parole l’hanno distolto dalla capacità di osservare il mondo, la smania di doverlo descrivere l’ha reso sordo e cieco. Casa fatta di alba è un romanzo creato per sottrazione di Verbo; lascia parlare la Natura dell’America e coloro che con essa hanno da millenni un rapporto di autenticità e rispetto. Mi piace pensare che la lettura di questo libro possa far emergere la Verità, o almeno un nuovo punto di vista, su popoli e culture che da sempre affascinano il mondo.