Spesso la Storia appare come uno spettro sfocato, qualcosa di inafferrabile e distante: è vero, di fronte a Pompei, al Duomo di Milano o a qualsiasi prova concreta, la distanza si riduce notevolmente. Ma con i personaggi che la Storia l’hanno scritta, cosa succede? Si entra nella sfera dell’intangibilità, subiscono un processo di disumanizzazione: organismi geneticamente modificati; nel DNA solo grandi gesta, pensieri alti e discorsi memorabili. Salvo diari accurati, nei libri non c’è posto per abitudini e piccoli gesti, men che meno per paure e incertezze. In Solo è il coraggio, Roberto Saviano prova a invertire la tendenza, dipingendo un inedito e intimo ritratto di uno dei magistrati più importanti che l’Italia abbia avuto.

Tra gli anni Settanta e Ottanta, il sud Italia è una polveriera instabile, destinata di lì a poco a prendere irrimediabilmente e violentemente fuoco. Malata cronica di mafia, la Sicilia prova diversi farmaci: Giuliano, Terranova, Mattarella, Basile, Costa, La Torre. Tutto inutile: Cosa nostra rigetta ogni cura, soffocandole con piombo e sangue. Il loro sacrificio suona come un monito ai posteri: certe battaglie non si possono combattere da soli; non si può essere lasciati soli a combatterle. Serve coesione, perché “se cade uno, sappiamo che prima di cadere ha passato il testimone”; serve una squadra, un pool. È Rocco Chinnici che realizza, prima di tutti, sia la necessità di struttura sia che anche lui è destinato a cadere; per questo si circonda di persone fidate: Giuseppe, Leonardo, Antonino, Paolo e Giovanni.

Sarebbe più rispettoso chiamare questi magistrati con i propri cognomi ( Di Lello, Guarnotta, Caponnetto, Borsellino e Falcone), eppure le pagine di Solo è il coraggio sono così capaci di umanizzare queste autorità, di mostrarne il legame fraterno, tanto che il lettore entra in confidenza con loro. Si ritrova a tavola nella tenuta di Chinnici, dove si scambiano ricette; negli uffici della procura di Palermo, a fumare centinaia di sigarette e a ridere delle loro battute. In queste parentesi di anormale normalità, ci si dimentica quasi della spada di Damocle che incombe su ognuno e dell’inchiesta colossale che stanno portando avanti. Sulla base del rapporto Greco Michele +161 e del teorema Buscetta infatti, stanno costruendo l’istruttoria di quello che passerà alla storia come il Maxiprocesso.

L’esposizione mediatica che derivò dal successo del processo (alcuni numeri: 346 imputati colpevoli, 29 ergastoli e 2665 anni di carcere inflitti) non piace a Giovanni Falcone, a cui viene riconosciuta l’esclusiva paternità del “mastodontico monumento antimafia”. Anzi, gli si ritorce contro: dall’interno della magistratura viene accusato di egocentrismo, di atteggiarsi a superuomo della giustizia e di trattare il fenomeno mafioso solo per il proprio curriculum (questa macchina del fango pregiudicherà la nomina a procuratore aggiunto di Palermo, a consigliere del CSM e ostacolerà la creazione della Superprocura).Se gli attacchi dal mondo togato minano la sua carriera, a farlo soffrire profondamente sono quelli dell’opinione pubblica: cittadini arrabbiati per la continua presenza di volanti; giornali che lo accusano di personalismo perché sotto scorta; indignazione per qualche attimo di svago. “È osceno che uno come lui si diverta. È una cosa che sta fuori dalla grazia di Dio. Non è per questo che i cittadini pagano la sua scorta, ma perchè patisca e perchè incarni la sofferenza” (solo io vedo analogie con le folli accuse mosse all’autore di questo romanzo dai tempi dell’uscita di Gomorra?). Giovanni è sempre più isolato, frainteso, ferito: il suo assassinio non è stato fulmineo, è durato anni ed è iniziato proprio con queste accuse.

Unico suo punto resta la moglie Francesca Morvillo, magistrata minorile, conosciuta tra i corridoi del tribunale palermitano. La loro è una storia iniziata in salita e ostacolata dai superiori; fatta di rinunce e clandestinità, alimentata da pochi attimi di spensieratezza. Nelle pagine che descrivono le nozze affiorano pensieri struggenti di chi sa che priverà la moglie di una famiglia, di un matrimonio ordinario, della presenza costante di un marito: “possibile madre di possibili figli, possibile gioia per sé e per chissà chi; vuoi tu prenderla in sposa e ammorbarle la vita? […] Vedo l’angoscia che questa donna non si merita”. È un amore di paure soffocate nel silenzio, di pesanti non detti, di occhi che comprendono l’incerto avvenire e che comunque hanno deciso di non distogliere lo sguardo dall’altro.

Il romanzo non dà voce solamente ai timori, ma racconta anche i momenti di spensieratezza, gran parte vissuti con la moglie, in cui Falcone può sfilarsi l’armatura del magistrato. Introverso e a disagio nei salotti siciliani, a questi preferisce le tavolate con gli amici, dove si rivela affabile e scherzoso. Ama il buon cibo e si concede qualche vizio: un bicchiere di Laphroaig ogni tanto, un numero indefinito di sigarette al giorno. Giovanni cerca anche la solitudine, paradossalmente è una merce rara per chi fa la sua vita. Da amante dello sport, la trova nella pace della corsa e nel mare: il rapporto intimo con questo elemento gli permette di lasciare respirare la mente, abbandonando a terra i tormenti.

Roberto Saviano ha scritto un docuromanzo appassionante e commovente, donando gentilezza all’ istituzione Falcone, rappresentata sempre come seria, distaccata e sicura di sé. Questo non ha inficiato il lavoro di ricerca delle fonti per parlare di uno dei periodi storici più tragici del paese: le cinquanta pagine di bibliografia, interessanti quanto quelle del corpo centrale del libro, permettono al lettore più curioso di andare a scoprire ancora di più sia su Giovanni, che sul giudice Falcone.

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