La letteratura è piena di storie che raccontano legami indissolubili (o Voti Infrangibili per gli amici rowlinghiani): qualcuno valica barriere sociali, altri abbattono confini geografici, alcuni persino riescono nell’impresa di guadare lo Stige. Tra i narratori di queste storie poi, c’è chi ha il dono di toccare questi rapporti, veri e propri uragani emotivi, con delicatezza, senza dimenticarsi di fotografarne anche i tormenti: è il caso di Giacomo Pozzi e il suo romanzo d’esordio Un Baobab toccò il cielo dell’Africa ne è la prova inchiostrata.

Intraprendenza, praticità e pochi peli sulla lingua: con queste parole si può descrivere Hélène, giovane ragazza in partenza per una missione umanitaria in Africa. A controbilanciare il suo temperamento di fuoco è il fratello James: riflessivo, pacato e circondato da un’aura di insolita saggezza, vista l’età. Non è solo il sangue a unirli, c’è qualcosa di misterioso e magico che salda le loro anime. I semi che portano al collo sono il simbolo di questa unione, la cui indissolubilità è profetizzata da una Curandera: “di due semi, solo uno è pronto per battere all’unisono del cuore. L’altro, per grande volere, è destinato a tornare nel tempo. […] La vita di uno per comprendere. […] Un bambino colmerà la vostra esistenza”. Non solo eternità: anche una tragedia risiede nelle parole della sciamana.

Dopo la morte improvvisa del fratello, Hélène è arrabbiata, sente di aver perso l’unica voce capace di infonderle sicurezza; vuole volare via da tutti e c’è un posto solo che può accoglierla in quel momento e dove potrà riorganizzare i cocci della sua vita: il Gambia. Jalang è un villaggio sperduto: qualche capanna, una scuola, un refettorio, il campo da calcio, centro nevralgico della vita dei bambini. Tutto il corpo si immerge nella vita della missione: lingua e naso imparano ad apprezzare il piccante del jollof rice e il dolce profumo del tè ataya; le orecchie a riconoscere le voci dei sintir e dei kalimba; gli occhi si abituano alle fantasie colorate di vestiti e turbanti. Si sente finalmente utile, svincolata da schemi sociali che fanno vivere la vita “rincorrendo come criceti nella ruota ideali stupidi e inutili e tutto ciò che è apparenza”. Eppure Jalang non basta a riequilibrare la sua esistenza: verrà messa nuovamente a dura prova.

La narrazione del Gambia assume tratti poetici; l’autore canta la Natura in tutte le sue rappresentazioni, in un ritmo che sembra alternare prosa e metrica: “la musica scrosciante della pioggia svanì tra le ultime gocce ritardatarie, che in tutta calma andavano a posarsi sopra quell’ umido strato di sabbia reso più scuro dal bagnato”. Eppure Un Baobab toccò il cielo dell’Africa rivela anche un lato crudo e violento: Hélène infatti viene rapita da alcuni bracconieri, che la umiliano e violentano, riducendola a un mero involucro di carne. Dai toni aulici della Natura alla barbarie umana in poche pagine: “quello schifo di bestia mi teneva stretta per il collo e non mi lasciava respirare. […] Sentii l’odore della sua pelle saldato sulla mia, il suo sudore acre, il suo fiato marcio e stagnante”. Dopo essere scappata, scopre che quella violenza ha generato una vita in lei: si innesca il senso di colpa, pensieri distruttivi affollano la sua mente e mai come in questo momento sente la mancanza del fratello. È ora di tornare a casa, ma prima decide di donare a quella terra, che tanto le ha tolto, la cosa più preziosa che ha: nel deserto pianta il suo ciondolo, un seme di baobab. “Quando toccherai il cielo dell’Africa, dillo a mio fratello, faglielo sapere; chiamami. Perché io tornerò, stanne certo: io tornerò per farti conoscere mio figlio”.

Sa che non potrà affrontare il futuro senza il supporto dei genitori, con i quali riconosce di avere un rapporto che si è “scucito sbadatamente”: proprio la gravidanza sarà l’occasione per crearne uno nuovo e più forte. Grazie al diario di gravidanza, il lettore può seguire la trasformazione di Hélène: sono queste pagine di contemplazione, non solo del mondo circostante ma di un corpo e un’anima che cambiano; la prosa-metrica si ingentilisce, si contrae, sfiorando la forma dell’haiku alle volte. Anche il momento del parto, come altre diverse “scene” del romanzo, viene raccontato con precisione cinematografica: i fotogrammi si susseguono uno dopo l’altro fino alla nascita di Umi, traduzione letterale di “vita”. La giovane donna sa che è ora di diventare a sua volta curandera, nel senso filologico del termine: dovrà prendersi cura di suo figlio.

Gli anni passano velocemente. Umi supera l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta in uno sfogliar di pagine (forse unica nota dolente del romanzo); Hélène corre verso la vecchiaia diventando nonna di due nipoti. Nonostante il tempo, nel profondo dell’animo vivono ancora interrogativi irrisolti: qual era lo scopo dei ciondoli? Come mai questo senso di incompiuto? Perché ancora il senso di colpa la affligge? Le risposte le troverà nuovamente mettendosi in viaggio: spinta da una promessa da mantenere e accompagnata dal figlio, torna in Africa. Sarà proprio di fronte a un maestoso baobab, figura totemica del fratello, che troverà le risposte.

Racconto di viaggio, raccolta di poesie, diario introspettivo: Giacomo Pozzi ha scritto un romanzo dalle mille sfumature, padroneggiando registri diversi, gentili e all’occorrenza di una ferocia senza sconti. Un Baobab toccò il cielo dell’Africa è sicuramente un esordio notevole, in cui la sostenibilità e il rapporto con la Natura fanno da cornice a una vicenda coinvolgente. Magari saranno centrali in futuri romanzi, con la speranza che lo stile prosimetrico, peculiare dell’autore (meritevole quindi di un neologismo), esalti queste tematiche.