La cornice decameroniana del Boccaccio, l’epidemia bianca di Saramago, le strade vuote e silenziose di McCarthy, fino ad arrivare ai citatissimi ratti di Camus: schiere di romanzi sono stati scomodati dagli scaffali delle librerie, con l’unico scopo di trovare termini di paragone, nella tradizione letteraria, con la pandemia. L’autore de La peste non è il solo a mirare al titolo di “scrittore più citato del 2020”: a contendergli il titolo ci pensa il campione californiano della wilderness statunitense, Jack London, con La peste scarlatta.

Anno 2073, California. Da sessant’anni il genere umano ha a che fare con un nemico invisibile. La chiamano Morte Scarlatta: un’infezione rapida e letale, che si manifesta con eruzioni cutanee, appunto, di un rosso acceso. Come si sia sviluppata e abbia sancito la fine del genere umano lo si scopre grazie al professor James Howard Smith, memoria vivente di un passato ormai lontano. Fruitori dei suoi ricordi sono i nipoti Hoo-Hoo, Labbro Leporino ed Edwin che, alla pari del lettore, siedono attorno al fuoco e ascoltano le storie dell’anziano, credibili alle loro orecchie quanto leggende. Si ricostruisce quindi uno dei più antichi schemi, quello magister-discepolo: il professore sa che la sua clessidra sta per svuotarsi; sente il peso di dover salvare più conoscenza possibile di quel mondo lontano.

Le componenti di azione e di sopravvivenza non costituiscono certo delle novità agli occhi del lettore contemporaneo, né tantomeno le prime motivazioni per le quali verrebbe da leggere questo romanzo. Nel dominio temporale di cinema e serie tv, la fame fantascientifica e post-apocalittica del lettore-spettatore è stata abbondantemente saziata: le dinamiche riconducibili a The Walking Dead non catturano l’attenzione come potevano farlo invece cento anni fa. Sicuramente sono d’impatto le descrizioni delle città in rovina, una Malebolge in cui fuoco ed epidemia colorano tutto di rosso:

“A ogni passo si inciampava nei corpi. Alcuni non erano ancora morti. E mentre li guardavi, li vedevi sprofondare nelle grinfie della morte. […] Il fumo dei roghi offuscava i cieli e il mezzogiorno sembrava un crepuscolo buio e, con le folate di vento, a volte il sole filtrava appena, un globo rosso cupo”.

Bisogna però cercare altro.

La produzione londoniana si divide a metà: romanzi in cui è centrale il racconto della natura selvaggia americana (Il richiamo della foresta, Preparare un fuoco) o romanzi di critica sociale, fortemente politicizzati (Il tallone di ferro, Il popolo dell’abisso). Ne La peste scarlatta invece, l’autore californiano ha fatto dialogare queste due realtà, sottolineando il ritorno allo stato naturale dell’uomo in assenza di cultura, e le sue conseguenze sociali.

Fin dalle prime pagine, infatti, emerge come la Natura si sia rimpossessata del pianeta, ponendo fine a un’epoca che ha tutte le caratteristiche del moderno Antropocene (che il punto di non ritorno di quest’era sia giunto proprio col Novecento?): “La foresta rimontava i versanti del terrapieno scavalcando il dosso, un’onda verde di alberi e di arbusti […] a segnalare la presenza di rotaie e travesine, attraverso il tappeto di muschio spuntava qua e là un pezzo di ferro arrugginito”. Gli animali rompono il giogo dell’addomesticamento e riassaporano la libertà, in pagine che hanno il sapore di un cantico dell’involuzione:

“I maiali furono i primi a inselvatichire. […] Sparirono così le varie razze canine per lasciare spazio ai cani lupo di media taglia. […] Anche i cavalli tornarono allo stato brado, e tutte le belle razze frutto della selezione sono degenerate nel piccolo mustang. […] E selvatici tornarono i bovini, come i piccioni e le pecore”.

Anche il genere umano sta regredendo a una forma primitiva, che vede vincere l’individualismo in nome della sopravvivenza. Nelle metropoli, il professor Smith ha visto i bassifondi, l’”abisso” secondo London, vendicarsi contro i ricchi, nell’ultimo e vano tentativo di vendetta travestita da giustizia: un vero e proprio sottosopra carnevalesco di sangue, in cui i potenti diventano servi e quest’ultimi padroni.

Ciò che strugge maggiormente il protagonista, però, è l’essere testimone dell’estinzione della cultura, giorno dopo giorno, lentamente. I ragazzi con cui parla ne sono la prova vivente: non hanno mai conosciuto i numeri, le sfumature di colore, le scienze, la letteratura. Questo divario è evidente nell’uso linguistico differente che hanno Smith e i giovani: articolato e ricco di sfumature il primo, scarno e rozzo il secondo. Esemplificativa la questione sulla parola scarlatto:

̶ “Il rosso è rosso no? E allora perché darsi tante arie e chiamarlo scarlatto? Nonno a che ti serve dire e ridire cose che nessuno conosce?”

̶ “Rosso non è la parola giusta. […] E se ti dico che era scarlatta è perché… be’, perché era scarlatta. Non c’è altra parola”.

Questa sorta di differenza diastratica che caratterizza i personaggi, fruibile al lettore grazie al lavoro straordinario di traduzione di Ottavio Fatica (per l’edizione Adelphi 2012), è una peculiarità di London: già in Martin Eden, infatti, gli usi linguistici caratterizzavano fortemente i protagonisti del romanzo.

Come salvare il sapere allora? L’oralità ridotta all’essenziale sembra l’unica soluzione praticabile: i suoi consigli suonano più come suppliche, invocate per salvare tutto lo scibile, quella “fiamma sacra” che si sta estinguendo. Li mette così in guardia dagli stregoni che “si spacciano per medici, scimmiottando quella che era un tempo una nobile professione” e da invenzioni pericolose come la polvere da sparo. Gli ricorda che nell’acqua è contenuta una cosa meravigliosa chiamata vapore, “più forte di diecimila uomini” e che nel lampo c’è un “servo dell’uomo altrettanto forte, che era suo schiavo un tempo”. Ma prova anche a salvare “il sapere degli antichi” allestendo una biblioteca in una grotta, con cifrari per imparare l’alfabeto, nella speranza che “un giorno gli uomini torneranno a leggere”.

Chissà quali saperi avrebbe salvato e cosa avrebbe voluto perdere Jack London in un’ipotetica apocalisse. Le stesse domande può porsele il lettore, a distanza di un secolo.

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