“Le vie del Salone del Libro di Torino sono infinite”: non sai mai cosa aspettarti e chi incontrerai nel brusio di Lingotto Fiere. L’edizione del 2022 (con la prossima, la manifestazione spegnerà trentacinque candeline), ad esempio, mi ha regalato la scoperta di K, la rivista letteraria de Linkiesta, curata da Nadia Terranova e diretta da Christian Rocca. Ogni numero raccoglie circa venti racconti accomunati da un tema centrale, che ogni autore può sviluppare liberamente. A oggi siamo arrivati al quinto volume, che ruota attorno alla parola pianeta: prima di questo, sesso, memoria, felicità (il numero presentato al Salone) e, appunto, città.

Siamo portati a definire i luoghi per stereotipi, nati dal sentito dire e dalle narrazioni che attorno a essi orbitano: complici qui chilometri di pellicole cinematografiche, pagine di libri e fiumi di canzoni. Eppure, dare una definizione univoca delle città è qualcosa di impossibile; le descrizioni rischiano di tramutarsi subito in sentenze lapidarie, senza possibilità di assoluzione. Non è sostenibile a causa, o per fortuna, delle unità più piccole che compongono i centri urbani, ovvero coloro che le abitano: per ogni città, esistono X sue versioni, dove X è uguale al numero di abitanti. Un esempio: New York ha quasi otto milioni di abitanti; esistono allora otto milioni di Grandi Mele, alle quali si sommano quelle di turisti, pendolari, sognatori, lettori, cinefili. Insomma: esistono infinite città in una.

Sono molte le grandi metropoli raccontate nel terzo volume di K, tra cui Genova, Praga, Milano, Londra. Se i grandi assenti sono i comuni di provincia e gli hinterland, non mancano invece i luoghi periferici dei grandi centri urbani. A tornare spesso è sicuramente il romacentrismo: molti, infatti, i racconti dedicati all’Urbe, con uno sguardo lontano da via del Corso e dai Fori Imperiali, rivolto invece ai quartieri popolari e soprattutto alle persone che vivono esistenze comuni. La sensazione che ho avuto è che le città narrate, in particolare Roma, traspirino dolore, sofferenza e un diffuso mal di vivere.

Già il titolo del primo racconto preannuncia dolore. Mattatoio di Chiara Barzini porta il lettore in una capitale dai sapori veristi e neorealisti: un giovane ragazzo, come in Rosso Malpelo, prende il posto del padre nel luogo che più di tutti trasuda violenza e morte, dove si trasformano in sussistenza. Sono pagine crude, macchiate di sangue e impregnate dell’odore di interiora; un dramma che il protagonista prova a sopportare: “appoggiavano la pistola sulla testa della mucca e sparavano, il chiodo entrava nella fronte e riusciva. […] Mi tremavano le gambe, tenevo gli occhi socchiusi. Speravo che Livio avesse ragione su Nando, che tutto quello sparare e infilzare non facesse male a nessuno”.

La morte è presente anche in Verano di Matteo Trevisani: l’autore depotenzia la carica di sofferenza che il luogo raccontato, il cimitero monumentale di Roma, ha insito in sé. Una vera e propria città dentro la città, con quartieri e vie in cui una strana protagonista femminile si aggira: “se fossi riuscita a orientarmi lì dentro, vivere a Roma sarebbe stato poi molto più facile, dato che entrambe erano città dove da sempre vivono i morti”. Le tombe diventano condominii di esistenze, stratificazioni di vite passate le cui voci si possono sentire attraverso foto, nomi e date sulle lapidi (un je ne sais quoi rimanda al più colorato Coco, capolavoro Pixar di Lee Unkrich).
Di cose lontane parla anche Giulio Perrone ne La città degli echi, un racconto malinconico di una città che, sotto gli occhi dell’autore, cambia ma allo stesso tempo resta immutabile. Esplorazione della città e scoperta del proprio io vanno di pari passo; l’una alimenta l’altra: il motorino allarga gli orizzonti del protagonista, rendendo raggiungibili posti a lui sconosciuti: “Roma era una torta golosa di cui cominciavo a conoscere ogni ingrediente. […] Non esisteva luogo che le due ruote rendessero troppo distante”. Nelle strade però percepisce, già dall’adolescenza, un sentore dolceamaro: il moto perpetuo dell’impossibilità che le cose cambino. Una sensazione, quella di “restare impassibili pensando al peggio e accontentandosi che non arrivi a colpirci fino in fondo”, che diventa il dogma a cui ci si deve, o si vuole, credere.

Anche uno spazio urbano, seppur ampio, può diventare soffocante: è il caso della Londra di Autobus rossi e altri giocattoli sparsi di Cristina Marconi. Una città che non vuole vedere le difficoltà delle persone, nascondendole dietro a luci e colori vivaci. Sembra che tutto sia a misura di bambino, come in un gigantesco paese dei balocchi: autobus rossi sgargianti, vestiti colorati, luci e dolci riempiono le vie. Il tutto sotto l’occhio attento di “una sovrana con i capelli argentini e i vestiti sgargianti, protetta e difesa da soldatini con giacche rosso carminio e enormi piumini oblunghi in testa”. Un’enorme bugia, che scricchiola quando deve coprire una tragedia come quella di questo racconto.
Non fa sconti al protagonista neanche la Milano capitale dell’editoria italiana, raccontata da Davide Mosca in Lo scapolo. Franco Marini è uno scrittore di noir che non vendono più, dimenticato dal suo editore e snobbato dal mondo della carta stampata. Prova a chiedere aiuto agli amici ma viene ignorato, troppo impegnati a stare dietro ai ritmi di una città che sembra non dormire mai. Milano si trasforma così in una bestia editoriale senza scrupoli, che tanto in fretta loda e con la stessa facilità dimentica.

K è una bella e coraggiosa novità nel panorama italiano, che dà la possibilità sia di scoprire nuovi autori sia di apprezzare sfumature inedite di quelli che già si conoscono: da citare inoltre, a fine volume, l’interessante ”intervista larga” di Simonetta Sciandivasci ad Alessandro Piperno. La veste grafica di Jinhwa Jang e le fotografie delle prime pagine, scattate da Luca Rotondo, arricchiscono il volume: come il fotografo afferma, sanno raccontare lo stupore e l’incanto della città che, usando le parole del fotografo, al mattino “senza trucco sia ventinove volte più bella”.