Ammetto di non essere un fan del noir e del giallo: trovo indizi lì dove non esistono mentre le prove del delitto sfuggono al mio sguardo; mi perdo nella selva oscura delle procedure giudiziarie e dei gradi della Polizia di Stato. L’elemento che più mi affascina è l’eroe di questo genere letterario: l’investigatore. Di Camilleri non ricordo tanti casi ma so che, se dovessi trovarmi a tavola con Montalbano, rispetterei il silenzio sacrale del pranzo. Pochi i ricordi degli omicidi usciti dalla penna di Robert Galbraith (aka J. K. Rowling); indelebile invece l’andamento claudicante di Cormoran Strike e il suo amore per i Gunners. La stessa empatia è scattata con il protagonista de Il caso Bramard di Davide Longo.

Corso Bramard è uno di quegl’insegnanti il cui vissuto può essere motivo di scommesse da parte dei suoi alunni: taciturno, spesso ostaggio dei propri pensieri, dai quali sembra trovare rifugio solamente sulle vette delle montagne. La quiete apparente delle arrampicate viene interrotta all’arrivo dell’ennesimo messaggio anonimo. Da anni riceve lettere, ogni volta spedite da un paese diverso; il mittente è invece sempre lo stesso, e si nasconde dietro il nome di Autunnale. “Le perizie calligrafiche dicono che è un uomo: sicurezza, padronanza di sé, perfezionismo, emozioni controllate, intelligenza pronta, spiccato narcisismo, compulsione alla correttezza e totale assenza di empatia emotiva”. I fantasmi del passato tornano a far visita a Corso.

Ogni lettera fa rivivere il tragico passato del protagonista: l’omicidio della moglie riprende forma nei pensieri; la scomparsa della figlia e nuove ipotetiche piste da seguire lo costringono a vestire i panni della sua vita precedente di poliziotto. Su tutte, quella delle belles ronfleuses: un gruppo di uomini facoltosi che pagavano giovani ragazze per il puro piacere di osservarle dormire assieme a loro. Su questa ipotesi si innestano omicidi di giovani donne, ritrovate nude e sfregiate; leggende attorno al fiore della Camelia japonica e versi poetici di Yasunari Kawabata.

Un rebus che cerca di risolvere grazie all’aiuto dell’ex collega Arcadipane e alla novellina Isa Mancini. Un trinomio complementare nelle indagini: irruento nei modi il primo; spigolosa la seconda; taciturno il protagonista. Alle volte Corso sembra scollegarsi dalla realtà, accompagnando il lettore in un labirinto di suggestioni, testi di canzoni e citazioni letterarie a tratti confusi e privi di senso. Una riservatezza specchio, o figlia, della città in cui è ambientata la vicenda: la Torino di Corso, e dell’autore, è descritta con toni dolci e allo stesso tempo freddi, che, agli occhi di chi non la conosce (o di chi non la abita), potrebbe sembrare malinconicamente grigia.
“Corso annuì, fissando il tappo di pulviscolo sopra la città. Era una buona città, a volerla dire tutta: volenterosa, civile e per nulla indifferente, ma anche sporca e feroce alla sua maniera. Ci voleva una certa dose di disincanto e pazienza per capirlo, il che continuava a trarre in inganno un sacco di gente. […] Abitavano in lei gli stessi elementi che facevano quella città – pentimento, follia, dovere, genio, geometria e qualcosa di vergognoso di cui non si ha colpa, ma che si fa di tutto per nascondere.
Forse anche per questa sua visione della sua città, della nostra, e della ricerca dei suoi dettagli, mi trovo ad empatizzare con Corso.

Il caso Bramard è un romanzo che stordisce chi lo legge. A livello narrativo, non segue il classico canovaccio noir dell’iniziale omicidio a cui seguono le indagini, durante le quali si conosce il protagonista. Qui è il suo passato, in cui si è catapultati in medias res, che giustifica le indagini e le riapre: si potrebbe definire un giallo introspettivo, concentrato sulla psiche del detective più che su quella del killer. Due menti per nulla distanti, che non nascondono una certa affinità: trovare bellezza “là dove l’uomo che pensava di essere avrebbe dovuto riconoscere solamente orrore”, inspiegabilmente, ha alimentato una caccia, “una bellissima partita”, tra i due.