La letteratura brasiliana è poco conosciuta, in Europa e nel resto del mondo. Sicuramente sto semplificando, ma si può affermare che, soprattutto nel Novecento, la lotta politico-sociale delle masse sia stato il tema predominante. Letteratura regionalista, romanzo del Nordeste, Ciclo della canna da zucchero, romanzo radicale: la sofferenza e i soprusi del popolo sono centrali. Un autore però spicca per i toni vivaci, grazie ai quali dalla denuncia al sistema latifondista riesce a estrarre speranza: quell’autore è Jorge Amado e Cacao ne è un esempio.

Pubblicato nel 1933, è il secondo romanzo dell’autore baiano, scritto a soli ventuno anni. Ilhéus, capitale mondiale del cacao, attira migliaia di lavoratori da tutto il Brasile. Tra questi, un giovane ragazzo, il sergipano, originario dell’omonimo stato settentrionale del Sergipe. Di famiglia medio-borghese, la sua vita viene stravolta alla morte del padre: lo zio, unico erede del patrimonio, lo lascerà senza un soldo; non rimane che emigrare. Ha sentito che a sud del Paese ci sono fazendas con infinite piantagioni, così descritte: “le foglie secche delle piante di cacao tappezzavano la terra […]. I frutti gialli pendevano dagli alberi come lampade antiche. Meraviglioso intreccio di colori che faceva tutto bello e surreale”.

Viene assunto alla fazenda Fraternidade, di proprietà del coronel Manuel Misael de Sousa Teles. Assieme a lui ci sono altri disperati “affittati”: il gigante Honòrio; Colodino, il costruttore di essiccatoi; il mulatto João Grilo. Accomunati dalla miseria, tra loro si instaura un rapporto cameratesco di fratellanza, che sfocia nell’odio verso il padrone e nel desiderio comune di riscatto sociale. Quest’ultimo elemento si alterna alla rassegnazione, in una bilancia emotiva che imprigiona i protagonisti; in molti dialoghi si può percepire questa oscillazione:
Nessuno protestava. Tutto bene. Vivevamo quasi fuori dal mondo e la nostra miseria non interessava nessuno. Vivevamo per vivere. Solo molto da lontano sorgeva l’idea che un giorno tutto quello avrebbe potuto cambiare. Come, non lo sapevamo. Tutti noi non potevamo arrivare a essere fazendeiros. Su mille, uno diventava ricco. […] Honòrio diceva: «Un giorno o l’altro io ammazzo tutti questi coronéis e ci dividiamo tutto».

Il seme della lotta di classe sta mettendo le radici nella coscienza del sergipano: ha percorso al contrario la scala sociale, from riches to rags si potrebbe dire, rendendosi conto delle reali condizioni della massa. Come lui, anche altri personaggi sono caduti in disgrazia e ora non vedono l’ora di farla pagare ai padroni: attraverso di loro sembra che Amado abbia attuato una vendetta letteraria contro i borghesi, senza neanche escludere il protagonista. La rivalsa passa anche dalla rappresentazione stereotipata del padrone, grasso e fervente cattolico (“Vogliono il paradiso. Magari si comprano anche un posto lassù”), in combutta con i prelati che, con il loro manzoniano latinorum soggiogano interi villaggi (“quattro frati dominavano la città. Tenevano sermoni nei quali descrivevano l’inferno nelle tinte più fosche. […] Noi ragazzi temevamo l’inferno e temevamo ancor di più i frati”).

La coscienza di classe fiorisce quando sia Honorio sia il sergipano, di fronte alla possibilità di un ritorno personale a discapito degli altri sfruttati, decidono di non tradirli. Il primo, incaricato dal coronel di uccidere Colodino, reo di aver ferito suo figlio, preferisce farlo fuggire: “non l’ho preso perchè era affittato come noi. Uccidere un coronel va bene, ma uno che lavora non lo ammazzo. Non sono un traditore…”. Il secondo invece resiste alle avances di Mària, figlia del padrone, che gli offre terre e denaro per stare insieme: “l’amore per la mia classe, per i braccianti e gli operai, amore umano e grande, avrebbe ucciso l’amore meschino per la figlia del padrone”.

“Non è un libro bello, di frasi mese armoniosamente in ordine, senza ripetizioni di parole”: così chiude il sergipano (qui, più che in ogni altra parte del romanzo, alter ego dell’autore) che nel frattempo è riuscito a cambiare di poco la sua condizione sociale, senza mancare di fiducia ai suoi compagni. Non è esteticamente apprezzabile, certo; ma Cacao di Jorge Amado rimane un romanzo, purtroppo, senza tempo: ieri come oggi, riesce a incarnare il vissuto e le condizioni di milioni di lavoratori sfruttati, in ogni epoca e parte del mondo. A suo modo, neanche l’autore brasiliano ha tradito le masse.
Da quello che scrivi penso che ti piacerebbe molto anche quest’altro splendido libro: https://wwayne.wordpress.com/2021/07/04/generazione-balotelli/. L’hai già letto?
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