Se ci si vuole innamorare della vita di un gigante come Jack London, probabilmente Martin Eden è l’opera più coinvolgente e appassionante, che regala un personaggio in cui tutti possono rispecchiarsi. Se si vuole coglierne lo spirto guerrier e la passione politica, Il tallone di ferro è la lettura più indicata e passionale. Se ci si vuole immergere nelle fragilità e nel passato cupo dello scrittore californiano, allora bisogna aprire John Barleycorn: un romanzo che affronta il difficile rapporto tra London e l’alcol, compagno di tutta la sua vita.

John Barleycorn. Memorie alcoliche è un flusso di coscienza dell’autore, un viaggio à rebours che parte dal 1912: London è ormai stanco, malato e infelice; nasconde il suo mal de vivre dietro al profilo dello scrittore prolifico e di successo, barricato nella Wolf House, cullato da infinite sbronze. Il 1912 è anche l’anno in cui negli Stati Uniti si discute l’emendamento per il suffragio universale (arriverà solo nel 1920, quattro anni dopo la morte dello scrittore): è nelle donne che confida, “solo mogli, sorelle e madri riusciranno a mettere i chiodi alla bara di John Barleycorn. […] Sono loro a pagare per questo e, se avranno il diritto di voto, voteranno per la proibizione dell’alcol”. Non spera nella sua redenzione, tutt’altro. Crede che l’alcolismo sia un male da estirpare ma che comunque abbia vinto la battaglia contro di lui: da buon nietzschiano, veste i panni del superuomo in grado, con la sua storia vincente, di essere da esempio per i posteri. Inizia così a tessere le sue memorie.

L’intreccio con John Barleycorn inizia quasi per gioco, a sette anni. Non ha mai amato l’effetto dell’alcol sul fisico: è quello sul cervello che conta, che libera dalle catene dei freni inibitori e dona un immediato senso di appartenenza a qualcosa. Subito i saloon diventano rifugi dall’amarezza della vita, in cui i miserabili possono esercitare il diritto d’asilo lì dove altri sbattono loro portoni in faccia. I baristi, angeli misericordiosi caduti dal cielo, hanno sempre una parola di conforto per tutti, mentre dispensano il siero che tiene lontano le preoccupazioni. Questi due elementi appaiono così al London bambino:
“Ovunque si andasse, c’era sempre un saloon: sulle strade principali e in quelle secondarie, nei vicoli stretti e nelle viuzze, erano sempre illuminati, simpatici, caldi d’inverno e freschi d’estate. Sì, il saloon era proprio un gran posto, la promessa di qualcosa in più. […] Quel barista diventò subito il mio ideale di uomo buono e gentile, e per anni sognai di lui a occhi aperti. Avevo solo sette anni allora, ma riesco ancora a ricordarlo con la stessa vividezza”.

Fin dalle prime pagine, dipinge l’etilismo come fenomeno di costume e sociale: le persone inciampano costantemente in John Barleycorn, appostato in ogni angolo della città, accessibile ad ogni portafoglio. London sottolinea il nesso tra classe e alcol: “Il sistema sociale era organizzato in modo che io (e milioni come me) venissimo attratti, inghiottiti e guidati dritti agli spacci di veleno”. Marinai, operai, minatori; dalle terre del Sud fino all’estremo Oriente, passando per ogni porto e nave del mondo: John Barleycorn è drammaticamente democratico, non esclude nessuno dell’ l’abisso. Esperirlo, probabilmente, è stata una leva che ha portato l’autore californiano a spendere le poche energie rimastegli per l’ultima pia illusione della sua vita, il popolo: ormai appartenente alla società bene (nella quale non si riconoscerà mai), non dimentica le proprie origini e lotta sotto la bandiera del socialismo.

L’autore, raccontando la propria esperienza, alterna sentimenti di rifiuto ed esaltazione dell’alcol, strutturati in due livelli di narrazione: una di facciata e una più introspettiva. “Non era per niente buono. Ma bevvi lo stesso, perché i grandi sapevano il fatto loro. […] Per porre fine a quell’incubo che mi dava la nausea inghiottivo veloce come se stessi prendendo una medicina”: la descrizione che fa della sua prima volta, a cinque anni, tornerà in tutto il romanzo; non c’è e non ci sarà mai un piacere sensoriale nel bere. Eppure, gli serve: è un lievito naturale per la virilità; la benzina per vivere la dura vita di uomo di mare. Tra le pagine autocelebrative delle sue capacità di resistenza e immunità agli effetti dell’alcol, fanno capolino bisogni infantili, di cui si vergogna ma che non nasconde:
“Ogni volta che volevo essere uomo tra gli uomini, di nascosto provavo un vergognoso desiderio di caramelle. Ma piuttosto che farmi scoprire da qualcuno avrei preferito morire e così, quando sapevo che il mio equipaggio avrebbe dormito a terra, […] mi godevo lunghe ore di beatitudine con la lettura e le caramelle. Quello era l’unico caso in cui mi sembrava di aver speso bene i miei soldi”.
È il superomismo di un uomo che ha alzato sempre l’asticella, in tutto; una predisposizione più autentica di altre perché non ha paura di mostrare le proprie fragilità, senza voler essere però compatito.

Lo spiraglio di salvezza, apparente, è proprio lo studio: nei libri non riconosce solo lo strumento di emancipazione utile al riscatto sociale, ma anche una terapia all’alcolismo. Quando torna a scuola, non beve perché frequenta non bevitori, riesce a non toccare un alcolico per lunghi periodi. Come tizzoni ardenti, John Barleycorn vive sotto la cenere, attendendo solo il momento giusto per ripresentarsi: quel momento sarà proprio all’apice della sua formazione culturale, gli esami d’ammissione all’università, poco prima del decollo del suo successo:
“Volevo bere. Volevo ubriacarmi. Fu un richiamo imperioso. Non c’era alcun dubbio sul fatto che la mia mente esaurita e distrutta cercasse sollievo in una maniera che le fosse familiare. Proprio qui sta il punto. Era la prima volta che desideravo consapevolmente e deliberatamente ubriacarmi. […] Non era un bisogno fisico ma un desiderio mentale – la mente, ipersfruttata e obnubilata, voleva dimenticare”.

Come ricorda Davide Sapienza nella prefazione dell’edizione Mattioli 1885, John Barleycorn. Memorie alcoliche è stato usato, dopo la scomparsa dell’autore, come un “vademecum per gli avvocati della sobrietà” favorevoli al proibizionismo. È l’ennesimo uso strumentale della produzione londoniana da parte di una critica, politica e letteraria, abituata a ragionare in modo manicheo: rosso rivoluzionario o paladino del capitalismo; sostenitore del proibizionismo o suo antagonista. Centrale deve invece tornare il valore autobiografico del romanzo, che regala al lettore di ogni tempo il ritratto di un uomo straordinario.